Commento

Una croce di cartapesta per Matteo Salvini martire

Cartapesta, come l’uomo che si vuole spacciare per martire di un sistema che non potendolo battere nella contesa elettorale, lo ha condannato al supplizio giudiziario

21 gennaio 2020
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Nel vangelo secondo questo Matteo, in croce finì Salvini. Una croce di cartapesta, come l’uomo che si vuole spacciare per martire di un sistema che non potendolo battere nella contesa elettorale, lo ha condannato al supplizio giudiziario.

Andrò in prigione, se la patria lo richiede, ha detto il prode ex europarlamentare a scrocco, offrendo il petto alle canne dei fucili “comunisti”. E scriverò le mie prigioni, ha aggiunto evocando un Silvio Pellico di cui si era scordato l’esistenza fino a che i suoi spin doctor non gli hanno suggerito l’opportunità di citarlo.

Il perché Salvini andrà (forse) a processo è noto: da ministro dell’Interno sequestrò i migranti a bordo della nave Gregoretti (non un naviglio pirata, ma della Guardia Costiera), impedendo loro di mettere piede sull’italica terraferma. Tecnicamente il reato che gli viene imputato è questo. Politicamente dovrebbe essere un altro, anzi due: l’occupazione del potere come solo a un caudillo brianzolo potrebbe venire in mente; e la propalazione di balle spaziali: mentre lui sequestrava i poveretti a bordo della Gregoretti, altri sbarcavano alla chetichella eludendo i controlli che lui vantava di avere messo a regime, insieme al blocco della “invasione” di cui si era fatto manifesto.

Due cose, dunque: Salvini non è uno che andrà in prigione. Non solo perché il garantismo del sistema giudiziario italiano, associato alla farraginosità delle procedure che tanto ha giovato ai suoi padrini politici, gli assicura piede libero proprio come ai “mafiosi e spacciatori” di cui lamenta l’impunità.

Non andrà in galera, in secondo luogo, perché tutta la sua “carriera” politica testimonia di un opportunismo senza pari. Salvini se l’è sempre cavata fingendo: di lavorare, di avere una visione politica, di pagare di persona. Dai tempi di Radio Padania, ai debiti della Lega, al batticassa con l’ultradestra bigotta, meglio se russa.

La sua finta martirizzazione – che ribalta la tattica iniziale di diniego delle accuse, prima, e di chiamata di correità del primo governo Conte, poi – durerà il tempo del polverone sollevato ad arte dalla Bestia (la sua macchina propagandista, pagata da tutti gli italiani), poi si passerà ad altro.

Lo avvantaggiano, è vero, la condizione di campagna elettorale permanente in cui si trova l’Italia (regionali, legislative, europee, comunali) nella quale il Tipo dà il suo peggio; un incanaglimento del discorso politico dominante, rafforzato dallo zelo servile dei media; e lo stato confusionale in cui versa l’altro versante del panorama politico. A partire dal fatto che la golden rule dell’attuale maggioranza è ancora detenuta dagli uomini di un movimento che a Salvini ha concesso tutto, quando erano soci in affari, compreso il sequestro della Gregoretti.

La conferma di quanto sopra viene da come si è giunti al voto nella giunta del Senato per le autorizzazioni a procedere: messa in calendario con il voto decisivo della presidente Casellati (suo unico titolo: essere una Berlusconi woman) che ha derogato ai suoi doveri di terzietà, la riunione è stata disertata dai componenti della maggioranza Cinque Stelle-Pd-Renzi, mentre decisivo per il sì all’autorizzazione a procedere è stato il voto dei membri leghisti, fedeli esecutori degli ordini di scuderia. Perché poi la maggioranza abbia abbandonato la giunta, dopo avere tentato vanamente di rinviarla a dopo il voto regionale in Emilia Romagna, è presto detto: per non fornire un nuovo argomento alla propaganda di Salvini. Ma riconoscendo in questo modo una propria subalternità, o quantomeno la propria debolezza dinanzi alla forza comunicativa del finto aspirante martire. Una “sinistra” (con un’infinità di virgolette), permanentemente incerta sul da farsi, incapace a sua volta di articolare un proprio discorso e ansiosa di trovarne uno nella mobilitazione delle “sardine”.

Intanto Salvini, passato da selfie con la bocca piena di bomboloni-salsicce-crauti-zuccherofilato, al digiuno gandhiano imposto, via hashtag, ai seguaci, si gode il quarto d’ora di martirio virtuale. Poi taglierà la corda. Una Hammamet televisiva vuoi che non gliela trovino?

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