Commento

L'egemone stanco. Gli Usa e la finta pace in Afghanistan

Scappare e illudere il mondo che saranno i Talebani a rimettere insieme i cocci. La balzana idea di Trump per 'porre fine alla guerra senza fine'

Quel che resta (Keystone)
21 agosto 2019
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Ci sono guerre che si trascinano talmente a lungo, su fronti e fra gruppi armati così eterogenei, che l’opinione pubblica viene presa per stanchezza. Succede in Afghanistan, dove il conflitto si trascina dall’invasione Usa del 2001 (da prima ancora se si contano a ritroso scempi talebani, guerre civili e invasione sovietica). L’attacco Isis di domenica a Kabul – 63 morti e 182 feriti a un banchetto di nozze sciita – ci ricorda che non è affatto finita: le vittime da inizio anno sono già un migliaio, i feriti molti di più. Ma questa emorragia interna non ha la forza mediatica degli attacchi contro le truppe occidentali, e allora si fa presto a dimenticarsene. Lo sa bene Donald Trump, che in vista delle Presidenziali spera di approfittare di questa distrazione per sfilare dalla regione le sue truppe. Una ritirata spacciata per pace, naturalmente: “finire la guerra senza fine”, ha promesso durante i negoziati che a Doha, per la prima volta, hanno visto anche la presenza dei Talebani.

Le cose, fuori dalla testa del presidente-adolescente, sono più complesse. Oggi 14mila soldati americani supportano le forze governative e ne guidano gli attacchi aerei. Se dovessero tornare a casa per fine anno – metà già a settembre come si vorrebbe –, il popolo afghano si troverebbe abbandonato a se stesso, come rischiano di trovarsi i Curdi in Siria dopo quell’altro ritiro già promesso e più volte rimandato. A contendersene le spoglie sarebbero allora l’Isis, Al Qaida e i Talebani. E magari le potenze regionali pronte a sfruttare i vuoti di potere come Russia e Iran, ma anche India e Pakistan.

Né saranno i Talebani a fare da pacificatori e a frenare la jihad, come spergiura Trump pur di darsela a gambe senza farsi notare. Perché mai dovrebbero? Controllano o contendono al governo metà del paese, più ancora che nel 2001; non si vede perché una rinnovata posizione di forza debba renderli inclini a grandi compromessi col governo, compromessi che tutelino le minoranze etniche e religiose, il popolo inerme. Sono da sempre legati ad Al Qaida – fu per quello che gli Usa intervenirono – e ora gli si chiede di contrastarla. Odiano la concorrenza dell’Isis, d’accordo, ma si trovano di fronte un nemico forte e difficile da controllare, l’unico fuori dal perimetro Siria-Iraq che abbia il supporto diretto e massiccio del califfo Al Baghdadi.

Non è poi detto che le conseguenze del ritiro si fermino entro i confini mediorientali. Nessuno può escludere che il prevedibile collasso delle operazioni di antiterrorismo rinvigorisca la jihad globale. Il generale David Petreus, che ha comandato le truppe in Iraq e in Afghanistan, ha giudicato il ritiro “perfino più sconsiderato e rischioso di quello di Obama dall’Iraq nel 2011”. Insomma: l’idea della pace grazie ai Talebani è da piazzista quanto lo sono le altre soluzioni ‘definitive’ promesse da Trump per i problemi del mondo, dal conflitto israelo-palestinese alle Coree.

Quando gli Usa decisero di intervenire in Afghanistan, dopo l’11 settembre, la giustificazione mescolò gli argomenti del realismo offensivo (“dobbiamo attaccare per difenderci”) con quelli dell’idealismo neoconservatore  (“esportiamo la democrazia”). A 18 anni di distanza – e in parte già con Obama – lo sventato interventismo neocon è stato sostituito da uno stremato isolazionismo, il realismo dal cinismo del “se la vedano poi loro”, senza neanche preoccuparsi di gestire il disimpegno in modo ordinato. Anche l’egemonia globale americana è stata presa per stanchezza.

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