DISTRUZIONI PER L’USO

Il caso Kering-Gucci e la ricetta Masoni-Vitta

Per i liberisti nostrani la risposta alle difficoltà è sempre la stessa: giù le tasse. Non basta.

25 maggio 2019
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Chissà se prima ci riflettono, oppure si tratta semplicemente di un riflesso pavloviano. Fatto sta che per i liberisti nostrani la risposta a ogni stimolo esterno è sempre la stessa: tagliamo le tasse. Rallentamento congiunturale? Urge tagliare le tasse. Ripresa? Approfittiamone per tagliare le tasse. Pioggia nel fine settimana, acidità di stomaco, momento difficile per il Capricorno? Ci siamo capiti. Non stupisce che per le difficoltà della moda in Ticino Marina Masoni proponga un’analoga soluzione. L’ex direttrice delle finanze cantonali, che presiede la lobby di settore, è netta: “Il riformismo fiscale è al palo da troppi anni”, “occorre quanto prima avviare la riduzione dell’aliquota dell’imposta sugli utili delle persone giuridiche. L’obiettivo minimo è il 6%”.

Può sembrare un tema noioso, quello delle imposte. Ma in un cantone come il Ticino, che sulla concorrenza fiscale ha costruito una parte importante della sua recente storia economica, merita attenzione speciale. Lo si vede bene oggi, mentre Kering annuncia che tornerà in Italia, tagliando 400 posti di lavoro (e lasciando verosimilmente “evaporare” il resto degli impieghi). Quel colosso del lusso venne qui proprio grazie a speciali agevolazioni fiscali, e a una politica che gli ha permesso per anni di tassare la ricchezza prodotta altrove. Produzione in loco, niente. Soldi (e sfruttamento dei frontalieri), tanti.

Game over

Ora la festa è finita, con paesi come l’Italia e la Francia che si riprendono quello che gli spetta, e la politica cantonale pare a corto di idee. A parte tagliare le tasse, naturalmente. Ed è significativo che il cri de coeur di Masoni sia giunto simultaneamente all’annuncio dell’addio di Kering/Gucci. D’altronde, si tratta dello stesso mantra che il direttore del Dfe Christian Vitta ha riproposto per tutta la campagna elettorale. E che gode del consenso di buona parte del ventaglio politico locale.
Intendiamoci: non è che tagliare le tasse sia di per sé un male, tanto più che la concorrenza intercantonale rischia di renderlo necessario. Non condivido l’ostilità per l’impresa di una certa sinistra, e sono d’accordo con Masoni sul fatto che un mercato aperto e dinamico è necessario, altrimenti si finisce per socializzare solo la fame. Né mi scandalizzo per il passaggio di evasori – pardon: “ottimizzatori fiscali” – dalla Sonnenstube: i loro soldi sono diventati piazze, municipi, parchi-gioco e case anziani per tutti.

Ma quel modello di sviluppo, basato sul parassitismo fiscale, non esiste più. Non è che non funzioni, badate bene: si è proprio estinto. Piaccia o no, l’Europa non lo permette. Pretendere di difenderlo riflette la stessa dissociazione mentale che ci ha fatto credere di poter salvare il segreto bancario. Vale Tucidide, come sempre: “I più forti fanno quel che possono, i più deboli subiscono quel che devono”. E non sarà comunque qualche punticino in meno di tasse a salvare la partita.

Da fiduciari a politici

Forse, invece, questa è anche l’occasione buona per chiedersi a cosa ha portato l’approccio degli ultimi trent’anni: tutto fatto di sgravi, ‘tax ruling’ a quattr’occhi, trasferimento fittizio di ricchezze create altrove. I numeri pubblici in merito, purtroppo, sono pochi e datati, e quindi tocca affidarsi alle esperienze aneddotiche: quanti residenti conoscete che ‘lavorano nella moda’? Ne ho in mente ben pochi, al netto di alcuni fiduciari.

Perché in fondo quell’idea di sviluppo è da fiduciari, più che da economisti politici. Porta(va) libri contabili, ma non aziende vere. Ora “la domanda che ci si pone legittimamente è se è valsa la pena ‘svendere’ il territorio per qualche milione di franchi in più di imposte, centinaia di impieghi che in gran parte sono andati a beneficio di lavoratori frontalieri e una cultura aziendale a dir poco corsara”, come ha lucidamente notato Generoso Chiaradonna. Basta camminare per una città come Lugano per trovare un accenno di risposta: curatissimi palazzi disabitati, sontuose piazze deserte, impeccabili scempi edilizi; metafore perfette di un benessere pendolare e d’importazione. Finché funzionava, andava ancora bene. Ma ora la realtà bussa alla porta.

Ad aprire, però, non potrà essere il solito maggiordomo, col consueto vassoio di sgravi fiscali. Anche perché poi si rischia di dover tagliare la socialità troppo vicino all’osso. Eppure Masoni e Vitta ricantano il gospel di ieri, come nella più sghemba delle corali. E paradossalmente proprio Masoni ha ragione: “Manca la disponibilità a mediare intelligentemente tra aspettative di stabilità ed esigenze di dinamismo”. Tanto che, svanita la moda, ci s’illude subito con altre formule magiche: criptovalley, fintech, sharing economy; manca solo il binario 9 & ¾ di Harry Potter.

Guardare avanti

Poi va detto che di soluzioni facili e pronte non ce ne sono. Sarà anzi già difficile bloccare le pulsioni autodistruttive di chi, di fronte alle difficoltà, si illude di risolvere tutto murando il Ticino fuori dall’Europa (dimenticando che proprio dall’economia di frontiera viene gran parte della crescita recente, pur con tutti i suoi limiti). Si respira il lezzo di un euroscetticismo sempre più trasversale, che l’episodio di Kering non farà che incoraggiare. C’è poi un altro problema ‘esterno’ col quale fare i conti: la fragilità dell’Italia come sistema-paese, che appesantisce la collaborazione col baricentro lombardo, pur più dinamico di altre regioni. A livello interno, rimane il problema del sovrainvestimento in settori vulnerabili alle speculazioni, come l’edilizia (“Vuoi vedere che sta tornando l’economia a rimorchio?”, si chiede Angelo Rossi). E parlando di sostenibilità resta aperta l’annosa questione della tutela del lavoro, ora che perfino il salario minimo rischia di essere ridotto a merce di scambio, al punto di tagliuzzarlo fino all’inefficacia.

Sarebbe però sbagliato abbandonarsi al disfattismo, viziaccio fin troppo diffuso sotto ai nostri campanili. Dalle infrastrutture al potenziamento del polo scientifico e universitario, molto si sta muovendo, e la stabilità del quadro istituzionale svizzero rimane un notevole vantaggio competitivo. Si tratta di ‘pensare’ questi sviluppi in modo da avere imprese che investono davvero sul territorio, senza la scorciatoia del mordi-e-fuggi. E questo richiede di superare certe ingessature ideologiche, non ultima (ma neppure unica) proprio quella di un liberismo troppo compiaciuto. Difficile, ma non impossibile; urgono idee nuove, da menti fresche.

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