Distruzioni per l'uso

Salvini e i fascisti: un B-movie che parte da lontano

Un ministro che dovrebbe garantire l’ordine pubblico si fa intervistare per un editore vicino ai picchiatori. Perché?

Fascisti su Marte (e non solo)
(Wikimedia Commons)
18 maggio 2019
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Ora che la polemica va scemando, sulla vicenda degli editori neofascisti al Salone del libro di Torino si può forse allargare l’inquadratura. Ma cominciamo dal dettaglio, quello che ha rischiato di dominare buona parte della sceneggiatura: è legittima la presenza di simili case editrici a un evento patrocinato dalle istituzioni pubbliche? Secondo me, sì. Nessuno mi toglie dalla testa che ciascuno è libero di dire – e scrivere – la sua opinione (naturalmente entro i limiti della diffamazione e dell’istigazione a delinquere). Anche per non dare a nessuno la scusa per berciare contro il presunto  “fascismo degli antifascisti” (Pasolini, guarda giù). Liberissimi d’altro canto gli altri autori di non andare dove stanno certi ceffi. Ma la paventata presenza dell’editore Altaforte al Salone non è il vero problema.

Cowboy e camicie nere

Passiamo invece al ‘cowboy shot’: ritratto di Salvini nel saloon di Altaforte. Eccolo qui, il primo problema serio: il fatto che un ministro dell’Interno abbia pubblicato un’intervista coi neofascisti. Come se non bastasse la comunicazione bellicosa – le foto con i mitra, gli elmetti, le divise, i “me ne frego” e i “tireremo diritto” –, il garante dell’ordine pubblico in Italia si lascia stampare da cotanti tangheri (si è giustificato dicendo che non sapeva chi avrebbe pubblicato il suo libro: è ben distratto). Salvini sa bene che così facendo legittima anche le condotte squadriste di CasaPound: i pestaggi ai centri sociali, le intimidazioni contro i migranti e i rom che alle periferie di Roma diventano sempre più belluine. Una scazzottata continua che trascende di parecchio il libero corso delle idee. È grave, gravissimo. Ma perché si comporta in questo modo?

Dal Logos al Pathos

Campo totale, grazie. Adesso la bolla mediatica entra tutta nell’inquadratura. Secondo me interessa poco, a Salvini, rubare qualche voto alla Meloni e agli altri camerati coi quali forse aspira a coalizzarsi, una volta passate le Europee e liquidata questa legislatura. Non so nemmeno quanto sia intimo il suo legame con quell’ideologia. Gli fa comodo, semmai, la sua natura fluida e proteiforme, che gli consente di parlare a (quasi) tutti. Alludendo in parole, opere ed omissioni a “quando c’era lui, caro lei”, facendosi chiamare Capitano – se non proprio come Mussolini, comunque come D’Annunzio –, giocando sul montaggio analogico fra la millantata magnanimità del ‘movimento sociale’ e l’assertività dell’uomo forte. Passando insomma “dal Logos al Pathos”, come nota Filippo Ceccarelli nel suo monumentale ‘Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua’.

In quella che lo storico Emilio Gentile definisce “democrazia recitativa”, nella quale il cittadino ha perso il suo ruolo attivo ed è divenuto semplice e distratto spettatore, l’aura fascista non premia solo a Predappio o a Casal Bruciato. Storicamente autoritario e illiberale, il pubblico italiano – o almeno una sua parte importante – plaude da sempre alla retorica ducesca. Che ‘buca’ bene non solo sui social, ma anche in palinsesti televisivi dai titoli minacciosi: ‘L’arena’, ‘Piazzapulita’, ‘Bersaglio mobile’, ‘Quarto grado’. Una retorica usata anche dai grillini, d’altronde, con le loro fregole di giustizialismo e il loro furor di popolo spacciato per democrazia: non è certo stato un lapsus quello di Alessandro Di Battista, quando sul caso Altaforte ha commentato che “il problema non sono i neofascisti, ma i ladri”; un adagio che ben si sposa col law & order salviniano, come dimostra fra le altre cose la mostruosa bozza del decreto sicurezza bis (testo e musica di Salvini-Bonafede-Toninelli). Salvini dunque – come Dibba – ‘parla fascista’ per conquistare una più ampia e radicata “zona grigia”.

Intervallo

(Intervallo. È poi vero fascismo? Gentile dice di no. Io sono meno ottimista, anzi l’identikit fornito in calce al suo volumetto ‘Chi è fascista’ mi pare descrivere piuttosto bene, al netto d’inutili allarmismi, l’andazzo presente: partito-milizia, identitarismo, populismo, repressione poliziesca, “simbiosi fra regime e Stato”, corporativismo, sciovinismo sul piano internazionale. Manca qualcosa? Ma il fermo immagine storiografico qui serve a poco. Chiamiamoli ur-fascisti o fascisti eterni – rubando il termine a Umberto Eco –, fascistoidi, autoritari, populisti, nazionalisti: il problema resta lo stesso.)

La tazzina avvelenata

A questo punto occorre mettere brevemente a fuoco la fuga prospettica, e passare per un attimo dal western al thriller: in primo piano, come nella famosa scena di ‘Notorious’, la tazzina avvelenata dell’ur-fascismo odierno. Subito dietro il quarto di secolo della Seconda repubblica, che vide al governo chi definiva Mussolini “il più grande statista del secolo”, sdoganò la convivenza more uxorio fra sedicenti liberali e vecchi missini, e la rese digeribile attraverso una martellante propaganda televisiva. Sullo sfondo, come un trompe-l’oeil scarabocchiato da uno scenografo mezzasega, la storia di un ‘popolo’ che si è illuso di superare il fascismo appendendone il principe a Piazzale Loreto; per poi cullarsi senza autocritica nel mito degli Italiani-brava-gente.

Finale triste

Campo lungo, infine. È quello che inquadra la desertificazione delle relazioni economiche e sociali nell’Italia contemporanea – scusate i paroloni – in una scena da ‘C’era una volta il West’. Sarebbe materia per una tesi di dottorato, ad averne il tempo. Qui basti notare che i rigurgiti fascistoidi non nascono solo dalle manovre di certi capetti politici. Ché se questi trovano ascolto presso una fascia così ampia della popolazione (i grilloleghisti sfiorano il 60% dei consensi), è perché la loro parabola s’incunea nella crisi della democrazia liberale. Un fenomeno pericolosamente globale. Le promesse non sono state mantenute – o così si pensa –, il bourbon si è rovesciato sul bancone. Qualcosa si è inceppato, tanto nella sovrastruttura ideologica di quella democrazia – ogni istituzione richiede anche atti di fede, piaccia o no –, quanto nella struttura economica che la sosteneva. “Alla bancarotta finanziaria corrisponde una bancarotta simbolica”, nota Raffaele Alberto Ventura nel recente ‘La guerra di tutti: populismo, terrore e crisi nella società liberale’. E trattandosi di una tendenza comune un po’ a tutto il mondo occidentale, le pallottole vaganti non si possono escludere nemmeno in altre nazioni. Occhi aperti, dunque: ché non sempre il fascista si riconosce dal passo dell’oca.

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