Commento

Se non fascismo che cos’è?

Il fascismo non è più quello di una volta, siamo grossomodo d’accordo

28 novembre 2018
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Il fascismo non è più quello di una volta, siamo grossomodo d’accordo. Ma a differenza di “una volta”, diciamo dalla sua sconfitta nel 1945, i suoi emuli possono vantare di esserlo: con appena qualche prudente sfumatura se si trovano al governo di un Paese; senza remora alcuna se si tratta di adottarne il linguaggio. “Se ne fregano”, infatti.

È stata la grande penna di Maurizio Maggiani a tornarci su, con una lezione civile d’autore su ‘Repubblica’ (“Antifascismo è non dire mai me ne frego”) di cui essergli grati. Perché la questione sta nella realtà delle cose ma anche – e in questo caso soprattutto – nelle parole che la plasmano, da un lato, e dall’altro la descrivono.

Il fascismo, avvertiva Maggiani “è una cosa complicata che va studiata bene per non sbagliare e confondere”. E ha ragione. C’è stato, in Italia e non solo, un tempo, trenta, quaranta anni fa, in cui essere di destra o anticomunista conferiva a chi rientrava in una delle due categorie l’epiteto di fascista. Un modo rude e superficiale per chiudere la bocca a un avversario politico o per additarlo all’ira delle masse. Specularmente, entro la cornice dell’antifascismo una accorta operazione di propaganda aveva iscritto, giustificandolo, il totalitarismo sovietico e quello ideologico dei suoi succedanei. Un doppio abuso terminologico, diciamo così, che ha finito per svilirne il contenuto. Non che i fascisti fossero meri fantasmi che popolavano i sonni agitati di una sinistra inappagata: si rilegga la Storia e si guardino gli organici di questure, prefetture, magistratura. Dalla prova di forza a Genova, nel 1960, a Piazza Fontana, 1969, in poi, i fascisti stessi si incaricarono di ricordare a tutti che la loro era stata una sconfitta, non una scomparsa.

Ma non è esattamente di questo che si tratta. Allora un fascismo residuale attentava alla democrazia. Oggi siamo qui a domandarci se quello in carica in Italia, il più a destra della storia repubblicana, si può definire un governo fascista, o quantomeno innervato da quella cultura politica. E non è un interrogativo accademico, come vorrebbe farlo diventare la presunta ponderatezza di grandi firme del giornalismo come Paolo Mieli, secondo cui non si può parlare di fascismo, considerato che quello storico prese il potere (e lo esercitò) con la forza, si alleò con il nazismo; e tutte queste brutte cose che Matteo Salvini non ha (ancora) fatto. Ma qui parliamo di politica; e il governo di un Paese non è un seminario di storici.

E allora osserviamo lo spirito del tempo, a partire dalla maglietta con la scritta ‘Auschwitzland’ indossata da una stolta a Predappio; la desertificazione della sinistra; il risentimento piccoloborghese; l’adozione, per ora soltanto promessa, di politiche sociali mirate (“le prime marchette [i contributi previdenziali] le ha messe il Duce”, mi disse una vecchietta nostalgica); il disprezzo come solo argomento dialettico; un balcone – i “social” – infinitamente più performante di quello di Palazzo Venezia; e un contesto internazionale di smarrimento post-traumatico. E allora se non fascista, come definire diversamente un governo il cui dominus flirta con l’estrema destra di quella fatta, ne sollecita il voto, ne asseconda le pratiche, ne copre le schifezze e ne adotta il linguaggio? In cui siede un ministro, Lorenzo Fontana, che di quell’area è schietta espressione? Di quale pensiero politico è espressione il ministro di polizia che – superando persino Berlusconi – ama esibire il petto nudo come un Mussolini alla battaglia del grano? Che vuole censire razze “inferiori” o comunque “asociali” (compagno di partito, del resto, dell’altro Fontana, Attilio, presidente lombardo, che parla di “razza bianca”)? Che ha organizzato il proprio discorso politico attorno alla costruzione di un nemico, l’Europa e i “poteri forti” di cui è serva, vaghi, ma non troppo, parenti del complotto “pluto-giudaico-massonico” di antica memoria? Libertino mangiapreti ma baciapile brandente un vangelo o un rosario, chissamai che ci siano altri patti lateranensi da formare? Che lavora a un lavaggio del cervello identitario per il cui successo si prodigano ormai fior di professionisti nell’informazione e nella scuola? Che usa twitter come olio di ricino per chi lo contesta? E che, soprattutto, “se ne frega” e ne mena gran vanto?

È vero, se ne dicono così di cose (e si cantano: chissà a che cosa pensava Vasco Rossi volendo “una vita che se ne frega”). E le parole non sono ancora azioni. Ma le parole della politica le anticipano e le giustificano. Chi usa parole fasciste ne prepara l’avvento.

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