Distruzioni per l'uso

Un’Europa a metà

A meno di un anno dalle elezioni europee, lo scontro vero è fra rigurgiti nazionalisti e aspirazioni di maggiore unità

Credit foto: Max Pixel
8 settembre 2018
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“Lo stato ‘sovrano’ è oggi il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso. In un mondo percorso da ferrovie, da rapide navi, da aeroplani, nel quale le distanze sono state annullate da telegrafi e telefoni con o senza fili, gli stati che un giorno parevano grandi, come l’Italia, la Francia, la Germania, l’Inghilterra, a tacer di quelli minori, sono diventati piccoli come nel quattrocento eransi rimpiccioliti i liberi comuni medievali”. Era il 1945 e così si esprimeva, contemplando macerie fumanti, il futuro presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi. Il mondo – spiegava in un intervento pubblicato sul quotidiano ‘Risorgimento liberale’ e ripescato recentemente dal ‘Foglio’ – è troppo interdipendente per evitare che l’assenza di istituzioni sovranazionali degeneri in una lotta di tutti contro tutti, nella quale gli stati più piccoli sono divorati dai più forti nella loro ricerca di “spazio vitale”. Per questo “il mito dello stato sovrano significa, è sinonimo di ‘guerra’”.

In mezzo al guado

Einaudi vi opponeva un disegno di Europa hamiltoniana, “costituita come gli Stati Uniti d’America o la Confederazione elvetica”: una federazione sottoposta a un governo centrale relativamente forte, in grado di controllare imposte ed eserciti. Invece nella narrazione prevalente oggi – quella, appunto, sovranista – è proprio a questo ‘centralismo’ che si imputano tutti i mali d’Europa: come se a mettere a repentaglio libertà, sicurezza e benessere fosse una cricca di ‘eurocrati’ che agiscono senza legittimazione democratica.

Io penso che le cose stiano in modo parecchio diverso: molti dei ‘mali’ dell’Europa vengono semmai dalla scarsa integrazione. L’attuale Unione europea è un progetto fermo a metà. La politica monetaria comune non è supportata da una politica fiscale analoga: col risultato che la gestione delle crisi diventa macchinosa e inefficace, e le singole nazioni devono vivere i vincoli di bilancio come un giogo. La situazione è aggravata da un sistema nel quale, di fatto, i rappresentanti a Bruxelles sono subordinati alle formazioni nazionali che li cooptano. Così alle soluzioni di lungo periodo si preferiscono sistematicamente gli escamotage buoni per blandire i rispettivi elettori: il fatto di aggrapparsi all’austerity, che ha trasformato una recessione in depressione e ha rischiato di fare saltare l’euro, è un esempio di come a una strategia comune si siano sostituiti le paure ataviche e gli interessi di bottega di singoli stati (in questo caso, soprattutto della Germania). Un altro caso riguarda naturalmente i migranti, letteralmente bloccati in mezzo al mare dal mancato accordo sulla riforma di Dublino. E ugualmente imbarazzante è l’incapacità di disciplinare le derive autoritarie in paesi quali la Polonia e l’Ungheria. In tutti questi casi l’Ue appare incompleta e, per questo, debole e paralizzata.
Non stupisce dunque che le prossime elezioni europee si stiano trasformando in un referendum sull’Unione; da una parte quelli che credono in quel progetto e vorrebbero completarlo, dall’altra coloro che, dati questi scivoloni, preferirebbero tornare indietro.

Possiamo prevedere cosa succederebbe se a trionfare fossero i secondi: basta rimontare in cima all’articolo e rileggersi le parole di Einaudi. Ma chi parteggia al contrario per un’ulteriore integrazione – anzitutto per le ragioni esposte da Einaudi – deve chiedersi se e in quali termini essa sarà possibile.

Ritorno a Ventotene

Perché le linee di faglia non sono solo quelle che dividono nazionalisti ed europeisti. C’è anche la divisione fra l’Europa austerista e ‘competitiva’ di Angela Merkel, o meglio di Schäuble e Seehofer – che punta molto sulla disciplina imposta dai mercati – e l’‘Europe qui protège’ di Emmanuel Macron, che auspica più redistribuzione e condivisione dei rischi, passando se necessario da una fiscalità comune. Le resistenze tedesche e nordeuropee all’idea di un budget trasversale per l’Eurozona dimostrano la profondità di questa divisione.

Ad aggravare tutto, le storiche differenze di natura economica e culturale fra est e ovest, sud e nord. Inoltre è difficile che gli umori correnti – e i vari movimenti che li cavalcano e fomentano – favoriscano un’ulteriore integrazione. Una soluzione sarebbe quella di un’Europa a geometria variabile: un modello già parzialmente in essere, per esempio per i paesi fuori dall’euro.

Però, siamo sinceri: l’idea di un’Europa à la carte – sto dentro all’euro anzi no, sto dentro alla difesa comune anzi no, e via dicendo – ci riporta all’abbaglio di un’acefala ‘società delle nazioni’. In proposito Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, il cui ‘Manifesto di Ventotene’ è forse la vera costituzione europea, scrivevano: “È ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni, e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti”. E davvero risulta difficile promuovere difesa, fiscalità, accoglienza e mercato comuni senza una netta devoluzione di sovranità ‘verso l’alto’.

Una necessaria utopia

Per come buttano le cose, questa visione rimane parecchio utopica. Anche perché richiede di cambiare completamente ‘narrativa’ in funzione antisovranista, di non lasciar “solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo”. Una battaglia lunghissima, che passa anche dal recupero di una partecipazione popolare troppo spesso schivata dal processo di unificazione (che ha lasciato il campo a quella miope rigidità tecnocratica e ‘impolitica’ sulla quale, come una nemesi, germogliano i populisti). Magari, chissà, attraverso movimenti davvero internazionali. In ogni caso, combattere bisogna: ché invece abbandonare l’Europa unita rischia di far finire tutti – rubo la storiella a un saggio amico – come “il tizio che sopravvive al ghetto di Varsavia, ad Auschwitz, al bombardamento di Dresda, e poi muore scivolando su una buccia di banana, il 9 maggio del Quarantacinque”.

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