Commento

Sergio Marchionne: oneri e onori dell’uomo Fiat

L’eredità del Ceo di Fiat sarà discussa rabbiosamente, ma intanto ha salvato la baracca

24 luglio 2018
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Sergio Marchionne non l’ho mai conosciuto personalmente, anche se fra il 2010 e il 2011 ho lavorato nella ‘brand communication’ della sua Fiat in quel di Torino. Era un inferno, soprattutto per un giovane con la pelle ancora troppo sottile; ma di certo non posso permettermi di tranciar giudizi netti dopo una permanenza così breve. Per quel po’ che mi è parso di capire, comunque, quell’inferno non era colpa di Marchionne, del turbocapitalismo selvaggio o di altre sciocchezze millantate dagli stalinisti della Fiom (ve lo ricordate, Landini? Santocielo).
C’era un gran casino, processi disegnati a matita e cancellati il giorno dopo, manager con seri disturbi della personalità, teste che rotolavano all’improvviso. Si facevano orari che qua in Svizzera sarebbero considerati tortura, anche perché eravamo nel pieno della crisi finanziaria e bisognava sgamellare anche più del solito. Però c’erano pure menti finissime, alcuni dei professionisti più brillanti coi quali mi sia mai capitato di lavorare, anche sul piano umano. Per dire: gente con la quale potevi passare una serata a fare i listini di un escavatore – stavo in New Holland – e poi parlarci per altre due ore di letteratura asburgica. E c’era questo Marchionne che cercava di separare il grano dal loglio, riconvertendo in azienda quello che era diventato un surreale labirinto ministeriale. Il tutto incancrenito dal rigidissimo mercato del lavoro italiano, dove se hai un contratto a tempo indeterminato devi già baciarti i gomiti, e anche se ne subisci una più di Fantozzi e ti pagano in lenticchie, finisci in piena sindrome di Stoccolma: ti innamori del tuo sequestratore, perché sai che fuori dalla caverna è anche peggio.

In mezzo c’è Marchionne

Quando me ne andai, per anni associai quell’anno folle a Marchionne, con l’imbecillità tipica di un attempato ragazzino, troppo immaturo per capire che ero semplicemente finito a fare un lavoro che non era il mio. Avrei compreso dopo, mentre mi lamentavo perfino del relativo paradiso della concorrenza teutonica, che la colpa non era sua. Perché Marchionne avrà pur fatto i suoi errori, come tutti: penso al fatto di incollare il marchio Lancia sui modelli Chrysler, che ha azzerato uno stemma storico; o ad auto come la Freemont, che sembrava un incidente stradale fra un suv e un carro funebre, e se ci avete attraversato il Piottino senza farvi il segno della croce a ogni curva, siete pronti per arruolarvi nei parà. Ma il bilancio generale è molto positivo, poche storie. Rubo la sintesi a Luciano Capone, che è uno sveglio: “Nel 2004 Fiat perde 1,5 miliardi e le azioni valgono 1,61 euro, è messa così male che General Motors paga una penale da 1,55 miliardi per NON comprare la Fiat. Nel 2017 Fca ha un utile di 3,5 miliardi, le azioni valgono 16,4 euro e ha comprato Chrysler. In mezzo c’è Marchionne”.
Se poi l’Italia ha perso molto, in questo che i bocconiani chiamerebbero ‘turnaround’ (in italiano: rivoltare la baracca come un calzino), difficilmente si può dare la colpa a Marchionne. La triste verità – esito a scriverla, ché poi i miei amici di sinistra non mi inviteranno più a casa loro – è che quel che si è perso non è dovuto a Marchionne, bensì al ‘sistema Italia’. Un sistema che ha scelto a più riprese di non ricalibrarsi sulla realtà, di imbalsamare il mercato del lavoro, negando al contempo qualsiasi garanzia a chi da quel mercato si trova sputato fuori. In tutto questo, non si può dire che Marchionne abbia mollato il mazzo senza provarci: le mitiche traverse operaie di Mirafiori erano già desertificate prima che arrivasse lui (ogni giorno scendevo dall’autobus in piazza Fred Buscaglione, e il centro per tossicomani davanti alla fermata era la testimonianza di errori ben precedenti il suo arrivo); se poi a Melfi si fanno le Renegade invece di lasciare tutta la città in mano a mafiosi e spaccini, è anche merito suo.

Roma e Torino

Poi, certo: ha dovuto capire che la massa critica per rifondare un colosso dell’automobile non c’era, soprattutto in un paese che non ha ingegneri e tecnici specializzati. Dopo anni passati a prenderla nei denti da Toyota e Volkswagen (per onestà vi dico che ho lavorato anche per quest’ultima), per salvare il salvabile toccava andare altrove, e soprattutto dare ascolto a un vecchio adagio tedesco: non passeggiare dove danzano gli elefanti. Leggo le reazioni delle vecchie cariatidi del comunismo italiano come Fausto Bertinotti, che accusa la Fiat di aver ridotto enormemente i posti di lavoro, e penso: ma come fai a mantenere una corte dei miracoli così smisurata se non hai una domanda abbastanza elevata? A meno che non si voglia tornare ai vecchi tempi in cui i buchi della Fiat li ripianava lo Stato. Ma questa cosa di privatizzare i profitti e socializzare le perdite mi è sempre parsa ricattatoria, e la Fiat pre-Marchionne fu complice di questo giochino, con buona pace sindacale. Se oggi è diventata più americana e meno italiana, è Roma, e non Torino o Detroit, che deve grattarsi la rogna.
Poi io non sono un top manager e probabilmente di queste cose non capisco una mazza. Però mi paiono ingiusti gli sciacallaggi già post-mortem di chi lo accusa di avere fatto del mero capitalismo finanziario. Se avesse voluto fare quello avrebbe preferito Ubs a Fiat, e di certo l’opportunità non gli è mancata. In fondo poi non è solo Fiat che gli deve qualcosa, ma pure Chrysler: se oggi i due marchi non sono finiti a prender polvere da qualche antiquario, tipo Isotta-Fraschini e Volvo, lo si deve a lui e alla sua squadra.

Ce l’hai una sigaretta?

Poi c’è il lato umano, che posso giudicare solo da quel che ne riportano i media, quindi prendete la cosa con ulteriore beneficio d’inventario. E insomma, a me sta simpatico, e non tanto per i pullover e le camicie a quadri, perché se sei un minchione puoi metterti la vecchia grisaglia Fiat o le Birkenstock: minchione resti. Mi affascina semmai la sua ironia incazzereccia e il fatto che fumasse millemila sigarette al giorno, in un mondo in cui gli altri manager giocano a tennis, bevono solo frullati di verdure e sono capaci di escluderti da un colloquio se ne accendi una. Mi piace il fatto che dica, con un sarcasmo che accarezza la verità, che “la lingua italiana è troppo complessa e lenta: per un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei”. Mi stupisce anche il suo amore incondizionato per il lavoro, che quando ero più giovane e perfino più scemo di oggi ritenevo lo stigma dell’idiota: e invece dipende dal fare qualcosa che ti appassiona. Poi certo, a ripensarci dopo si può sempre fare meglio. Come dice mia mamma, col senno di poi son tutti professori. Ma intanto grazie, Sergio.

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