Commento

Per quale classe dirigente?

21 novembre 2017
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Da cosa nasce la capacità di gestire il futuro? Come si prepara una classe dirigente? Quando si parla di formazione accademica si dovrebbe essere in grado di saper rispondere a queste due domande, perché certo fra i compiti più complicati della società vi è quello di garantirsi un processo virtuoso di sviluppo senza mai perdere di vista gli equilibri socio-culturali interclassisti, trasversali e che dunque prescindono dalle classi economiche di appartenenza. Detta altrimenti, la scommessa sulla futura classe dirigente è sempre aperta. L’unica soluzione possibile è investire nell’università così come si finanzia una start-up, una giovane azienda innovatrice: sapendo di correre parecchi rischi ma consapevoli al contempo di non avere alternative.

Seguendo il dibattito ieri in Gran Consiglio – riferito all’attività di Usi e Supsi – si è compreso quanta strada debba ancora essere fatta in Ticino per cogliere davvero il senso e il ruolo di una classe dirigente, iniziando evidentemente dalla sua formazione. Non deve stupire. L’esperienza ticinese, in fatto di università, è decisamente scarsa e dunque la società – tramite la politica che la rappresenta – non ha ancora ben capito la “grammatica” della formazione superiore, o meglio non sa relazionarsi ad essa proprio perché inesperta e per certi versi “innocente”. Del resto per anni e anni il vertice amministrativo, professionale e politico ticinese si è formato altrove, oltre Gottardo o oltre i confini nazionali, con vantaggi peraltro importanti. Il Ticino universitario è davvero agli albori. Che non giustifica tutto, ma certo ne va tenuto conto.

Come si fa altrimenti a comprendere la futura “Commissione di vigilanza” che verrà approvata dal parlamento il prossimo dicembre con compiti ancora non chiari, almeno stando a quanto discusso ieri sulle questioni generali? Perché se da un lato tutti o quasi si sono affrettati a precisare che serve un equilibrio fra controllo politico e autonomia universitaria (nella ricerca, nella scelta dei corsi, nella valutazione e assunzione dei professori e via discorrendo), poco dopo gli stessi hanno presentato un lungo e articolato elenco di criticità, nonché compiti non risolti o risolti male, che Usi e Supsi dovrebbero tenere in considerazione. E c’è anche chi ha apertamente parlato di “incomprensioni” fra la politica ticinese e il mondo universitario. Non è difficile immaginarlo. Non lo è per quanto detto sin qui. Il fatto è che si parlano con linguaggi diversi. Gli accademici (svizzeri e non) sanno che non si possono considerare l’istruzione (tutta, dall’obbligo in su) e la ricerca scientifica con gli stessi criteri utilizzati per valutare la produzione della ricchezza materiale, perché se la seconda genera profitti finanziari le prime due prosperano là dove regna il confronto, la contraddizione, l’alterità, il dubbio, l’incertezza e persino il caos (creativo). Da qui il bisogno di libertà, che non significa estraneità dal contesto in cui si opera ma piuttosto possibilità di volare là dove è necessario per meglio attrezzare le intelligenze del domani. Il problema, se così si può dire, ancora una volta ha a che fare con l’autorevolezza. Che è amica della forza e della maturità. Senza queste, la politica si sentirà sempre nuda di fronte al mondo accademico, ma a pensarci bene anche all’intera società che pretende di rappresentare.

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