Commento

Sentirsi stranieri a casa propria

28 gennaio 2017
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Quanta pazienza se hai la pelle nera o un cognome impronunciabile. Ero su un treno, piuttosto affollato, in Ticino e ho assistito a questa scena: due agenti entrano nel vagone, percorrono il corridoio, vanno dritti verso una giovane ragazza con la pelle scura. Avrà avuto 25 anni,
jeans, stivali, giaccone, musica nelle orecchie. ‘Documenti’, le chiede l’agente. Lei fruga nella borsa, glieli mostra. Osservo la scena (pensando, poi tocca a me), vedo che la giovane esibisce un passaporto rossocrociato, proprio come il mio (che non ho con me). Dopo un minuzioso controllo, l’agente glielo restituisce, si volta, mi guarda. È come se non mi vedesse, non mi chiede nulla e si avvia, col collega, verso la prossima carrozza. Incrocio lo sguardo imbarazzato della ragazza, le sorrido. Scambiamo due parole: studia a Lugano, è cresciuta in Svizzera coi genitori adottivi. A pesarle (dice) sono i continui controlli sui treni, in stazione, in strada e gli sguardi della gente, sbotta: ‘Mi sento senza diritti nel paese dove sono cresciuta. Tutto perché ho la pelle nera’. Non so cosa dirle, sono disarmata da tale franchezza, la discussione si chiude lì. Mentre si alza, vedo il computer spuntare dalla sua borsa: è una studentessa.
Quale responsabilità ha questa ragazza? Non ha scelto né di essere abbandonata, né di essere adottata in un paese ‘moderno’, dove il colore della pelle fa ancora la differenza. Perché è la drammatica verità. Se hai la pelle nera, (per alcuni) nere sono anche le tue intenzioni.
Questo è razzismo e disparità di trattamento. Ero con lei, nello stesso vagone, avrei potuto avere droga in borsa, essere ricercata o altro ancora, ma ho la pelle del colore giusto, nessun agente mi ha chiesto nulla. Ero invisibile ai loro occhi. Mi chiedo: se la polizia, spinta anche dai flussi migratori che premono alle frontiere, fa sempre più controlli in base al colore della pelle, sarà efficace? Fermare chi è diverso dalla maggioranza significa garantire maggiore sicurezza alla collettività?
Al riguardo i pareri divergono.
Secondo un gruppo di ricercatori universitari elvetici (vedi servizio alle pagine
2 e 3) il ‘racial profiling’ rende la polizia inefficace. Chi ha la pelle nera e subisce più controlli si sente umiliato, un cittadino di seconda classe, prova rabbia, paura ed eviterà la polizia. Ma c’è di più: il ‘racial profiling’ scatena conseguenze negative, secondo i ricercatori, anche nei testimoni, ignari che il controllato è innocente: aumentano sia il senso di insicurezza, sia i pregiudizi come pensare che tutti i neri sono spacciatori.
Studi dimostrano che la polizia ha più successo quando valuta aspetti comportamentali e parte da concrete situazioni di pericolo. È più semplice fermare, anche senza concreti sospetti, chi ha la pelle nera, piuttosto che fare indagini sui fiumi di cocaina tra i vip.
Questo in teoria. In pratica, il lavoro degli agenti è sempre più difficile tra pressione alle frontiere, rapine al confine, minacce di terrorismo. Inoltre quando succede qualcosa la colpa è spesso delle forze dell’ordine: non erano dove dovevano essere, si sono lasciati sfuggire sotto il naso pericolosi delinquenti. E così di seguito.
Purtroppo la realtà è che ci saranno sempre più controlli. C’è chi pensa siano un prezzo da pagare per avere più sicurezza. Forse è così, forse no. Sicuramente chi è diverso rischierà di sentirsi ancora più straniero a casa propria.
Ricordiamo le parole del calciatore Kubilay Türkyilmaz, nel libro ‘Kubi goal!’: ‘Ero il turco dal cognome impronunciabile in Ticino. Ero il ticinese quando giocavo in nazionale. Ero lo svizzero quando giocavo in Turchia’. Siamo ancora lontani da un mondo libero da pregiudizi.