Commento

La memoria d’elefante della rete

17 settembre 2016
|

Anche i casi limite e oltre possono servire a dibattere e a far riflettere, perché sono quelli che attirano l’attenzione. E scioccano. In settimana due gravi fatti di cronaca, avvenuti a Napoli e a Rimini, hanno rilanciato il dibattito sul rapporto (soprattutto dei giovani) con la rete e la sua memoria da elefante. Eccoli.
Una giovane trentenne partenopea, che aveva chiesto in giustizia di rimuovere filmati hard che la concernevano, si è tolta la vita. Aveva vinto la causa giudiziaria, dopo aver anche cambiato nome e domicilio trasferendosi dal Sud Italia in un’altra città più a Nord. Ma ciò che era finito in rete l’aveva comunque raggiunta anche nella sua ‘nuova vita’, trasformandosi in pettegolezzo da bar e commenti in rete. In una parola: una persecuzione, che aveva resuscitato i filmati, attivato chat, spinto qualcuno persino a stampare t-shirt e fatto parecchio discutere anche nella nuova comunità dove era approdata.
Alla fine, una brutta fine, la donna si è tolta la vita, anche se la giustizia – coi suoi tempi, che non sono quelli di internet – aveva nel frattempo decretato per quel materiale scottante il diritto all’oblio.
Dura morale: la rete non permette di dimenticare! C’è sempre un angolo, una registrazione di un privato o una memoria di un server, capaci di fare riapparire il proibito vietato.
La seconda brutta storia ha per vittima sempre una ragazza italiana, questa volta minorenne, ridotta (o ridottasi) in uno stato in cui non si è più capaci di intendere né di volere, trascinata nei bagni di una discoteca, violentata e filmata dalle sue ‘amiche’. Il video è stato poi da loro caricato in rete.
Prima constatazione: chi finisce nel tritacarne della rete, nel tamtam dei social, con affermazioni, foto o filmati compromettenti, molto difficilmente potrà esigere che il suo passato non possa un giorno riemergere. Questo anche se i tribunali sono pronti a imporre l’oblio e pure se un giudice sancisce che quella foto o quel filmato o quella dichiarazione debbano essere rimossi.
Queste vicende sono casi off limits, certamente: un ex fidanzato vendicativo che dà in pasto a chiunque lo desideri la tua immagine e le tue performance sessuali e l’estremo gesto della vittima che ne consegue.
Ma, senza arrivare a questi limiti di squallore e tragicità, è necessario che i giovani, abituati a documentare pubblicamente ogni momento della propria vita, conoscano i confini entro i quali muoversi, sappiano valutare chi frequentano, siano coscienti dei pericoli della rete, compresa l’impossibilità di poi riuscire un giorno a fare i necessari passi indietro. Come minimo un domani vi sarà sempre un datore di lavoro che prima del colloquio per l’assunzione getterà un’occhiata in Facebook o in Google digitando l’identità di chi gli sta di fronte. Come massimo un delinquente che vorrà distruggerti.
Anche per chi scrive – seconda constatazione – quello che si è consumato è motivo di riflessione professionale. Perché alcuni mass media italiani occupatisi della vicenda di Napoli quando la donna si è suicidata, malgrado fosse stato sancito il diritto all’oblio, hanno ripubblicato il suo nome, la sua foto e via dicendo. Facendo finta di dimenticare che, prima del suo suicidio, la vittima aveva vinto una causa giudiziaria che le riconosceva proprio il diritto all’oblio. Così una volta preso atto del nome, i clic hanno fatto resuscitare l’identità della poveretta. Raggiunto il fondo, come si suol dire, si può anche cominciare a scavare.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔