Chi manca gli obiettivi, fallisce. Del resto, sta pure scritto nel vocabolario. E siccome la missione imposta dalla Federazione a Patrick Fischer era quella di sempre, cioè arrivare ai quarti (almeno), di questo Mondiale russo tutto si può dire salvo che non sia fallimentare. Ma c’è modo e modo di sbagliare. Lo si può fare platealmente, con un fiasco su tutta la linea, oppure si può non riuscire con minor clamore. Magari adducendo pure qualche scusante. È il fallimento morbido. Che dà sì fastidio, ma non fa tanto male. Se dovrà difendersi, quando la Federhockey tirerà le somme e deciderà se prolungargli il contratto (che, ricordiamo, sarebbe stato automaticamente ricondotto fino ai Giochi 2018 nel caso in cui, appunto, non avesse fallito), a Fischer basterà segnare su un foglietto i piazzamenti della Nazionale dal 2005 in poi. Cifre impietose, che parlano di sei qualificazioni ai quarti in dodici edizioni. Quindi una volta sì e una no. In altre parole, fallire non è per nulla un’eccezione. Gli accusatori di ‘Fischi’ potranno sempre dire che, stavolta, la Nazionale lascia il Mondiale dopo aver vinto due sole partite su sette. Di cui una, oltretutto, al prolungamento. Ed è verissimo. Ma a quel bicchiere mezzo pieno basterebbe mettere un tappo e capovolgerlo, per accorgersi che la Svizzera torna a casa dopo essersi arresa una sola volta con più di un gol di scarto, perdendo pure due volte ai rigori e una terza al prolungamento. Ciò che è chiaro, è che al tirar delle somme i punti che mancano sono quelli persi all’inizio. Ma non solo i due regalati al Kazakistan (di cui, oltretutto, i kazaki neppure han saputo fare buon uso), bensì anche i due offerti alla Norvegia. Con quattro punti in più, la minaccia danese non sarebbe mai esistita e la Svizzera adesso avrebbe i suoi bei dodici punti in classifica. E anziché trovarsi all’aeroporto di Sheremetyevo con le valigie in mano per tornare a Zurigo, starebbe volando a San Pietroburgo per il suo quarto di finale. Già, ma per farne cosa, dirà qualcuno, visto che di fronte si sarebbe trovata il Canada (la Finlandia)? A parte come capita il più delle volte, posticipare il rimpatrio di quarantott’ore? La verità è che, Stoccolma insegna, se si vuole che il Mondiale diventi un successo sul serio, serve ben più di un quarto posto al termine della prima fase. Sennò il più delle volte il risultato è un ottavo posto invece di un nono (o decimo). E poco cambia. Ragion per cui, oltre a battere tutte le cossidette piccole, alcune delle quali poi così tanto piccole non sono, serve almeno un exploit con le grandi. Sempre. E il vero problema della Nazionale di Fischer, al di là delle questioni puramente tecnico-tattiche di cui si potrà discutere in altra sede, è che non ha fatto né l’uno, né l’altro. Ma non è tutto. L’impressione è che la Svizzera sia atterrata a Mosca portando con sé alcune delle lacune ereditate in preparazione. Lacune che è poi stata costretta a correggere sul posto. È come se qualcuno partisse per le ferie con la valigia mezza vuota, dicendosi che tanto ciò che manca lo può sempre acquistare strada facendo. Ma un simile ragionamento ha un prezzo. E gli uomini di Fischer hanno finito col pagarlo. Archiviata Mosca, per sapere se la Federhockey deciderà di andare avanti così nonostante tutto (e a sensazione, verrebbe da dire che così sarà) basterà pazientare qualche settimana. Nel frattempo, confidando nella ciclicità degli eventi, i più scaramantici paragoneranno Mosca alla Finlandia, dove nel 2012 la Svizzera si piazzò solo undicesima – esattamente come quest’anno – e Sean Simpson rischiò metaforicamente la lapidazione. Salvo, poi, tornare dalla Svezia con l’argento al collo dodici mesi dopo.