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Il discorso sul Covid è stato ‘troppo emotivo e drastico’

I giovani lamentano di essere stati additati come i responsabili della trasmissione del virus, mentre molti adulti non rispettavano le misure

I giovani lamentano di essere stati additati come i responsabili della trasmissione del virus, mentre molti adulti non rispettavano le misure

"Troppo emotivo o troppo drastico". È così che è stato percepito il discorso sul Covid da molti giovani. Lo rivela un progetto di ricerca comune tra l’Università della Svizzera italiana (Usi) e l’Università di scienze applicate di Zurigo (Zhaw). Un totale di 60 partecipanti con età compresa tra i 15 e i 34 anni (30 provenienti dal Canton Ticino e 30 dai Cantoni di Zurigo e Turgovia) sono stati intervistati tra l’inizio di dicembre 2020 e la fine di gennaio 2021. La maggioranza di questi fatica a ricordare le comunicazioni legate alla loro fascia d’età, rammentano bene invece le critiche mosse nei loro confronti. Quali? «In particolare messaggi presenti nei media che li incolpavano di essere irresponsabili e di trasmettere il virus agli altri a causa di alcuni loro comportamenti ritenuti sconsiderati, come per esempio frequentando discoteche o bar», ci dice Suzanne Suggs, docente di social marketing all’Usi e ricercatrice in questo progetto. Accusare tutti i giovani di comportarsi male è stato recepito come offensivo, lo stesso vale per i toni utilizzati. E questo quando molti stavano invece facendo la cosa giusta per proteggere se stessi e gli altri: «Desideravano che gli venisse riconosciuta la loro buona condotta e non essere stereotipati con lo stigma dei ‘soliti giovani che si comportano male’. Avrebbero voluto inoltre che si riconoscesse che pure alcune persone più adulte non si sono sempre comportate nella maniera migliore».

‘Soprattutto i ticinesi hanno segnalato una quantità sproporzionata di disinformazione, ‘metafore di guerra’ con lo scopo di creare panico e uno stile comunicativo apocalittico’

Si percepisce dunque un sentimento di ingiustizia vissuto dai giovani. Dallo studio emerge inoltre un bisogno di spiegazioni delle misure decise per contenere la diffusione del Covid. «Si lamentavano del fatto che veniva detto loro solo ‘cosa’ fare e non ‘perché’. Volevano i fatti, ma anche che venissero forniti loro il contesto, le spiegazioni e le ragioni delle restrizioni». Inoltre le comunicazioni sono state fatte, secondo molti partecipanti, in maniera troppo drammatica ed emotiva. «Soprattutto i ticinesi hanno segnalato una quantità sproporzionata di disinformazione, ‘metafore di guerra’ con lo scopo di creare panico e uno stile comunicativo apocalittico, drammatizzato ed esagerato. La maggior parte ha fatto riferimento alla copertura mediatica italiana del momento in cui a Bergamo file di camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime del Covid», riferisce la ricercatrice. I germanofoni invece si sono lamentati maggiormente del fatto che «i media esponevano solo i numeri dei morti e delle infezioni senza contestualizzare la situazione». In generale «le comunicazioni ufficiali venivano percepite come chiare e trasparenti, mentre quella dei media come non affidabile e piena di fake news».

I giovani, come anticipato, sembrano ricordarsi poco delle comunicazioni riferite alla loro fascia d’età. Per quale motivo? Suzanne Suggs spiega che nel periodo esaminato le direttive e le informazioni che arrivavano dalle autorità erano molto uniformi. La priorità era dunque quella di dare una linea comunicativa univoca e non di rivolgersi a gruppi specifici con messaggi in sintonia con loro. Come risultato, però, «i partecipanti al nostro studio non hanno ben identificato gli annunci come indirizzati anche a loro. Il formato delle informazioni e dove esse venivano divulgate non attiravano i giovani che dunque non leggevano e non percepivano questi messaggi». Le uniche comunicazioni rimaste impresse inerenti alla loro fascia d’età sono quelle «rilevanti per la loro vita sociale. Come la chiusura e l’apertura delle scuole, di bar, discoteche, o centri sportivi e le raccomandazioni di ridurre i loro contatti, soprattutto con i nonni e le persone più anziane e vulnerabili». Inoltre «i partecipanti hanno affermato di fidarsi degli istituti scolastici e pertanto avrebbero preferito ricevere maggiori comunicazioni da questi ultimi».

‘Alcuni hanno sottolineato che la solidarietà dovrebbe essere reciproca e si sono lamentati del fatto che persone più grandi, invece, non aderivano alle misure’

Ai ragazzi e alle ragazze veniva richiesto di essere solidali col resto della popolazione, in quanto meno colpiti dalla malattia. Tutto ciò è stato vissuto come una pressione sociale spropositata? «Il concetto di solidarietà è stato percepito in maniera diversa dai partecipanti allo studio. Molti, specialmente nei cantoni di lingua tedesca, si sentivano ‘costretti’ a mostrare solidarietà, come se questo sentimento non provenisse da loro stessi», spiega Suzanne Suggs. «Alcuni hanno sottolineato che la solidarietà dovrebbe essere reciproca e si sono lamentati del fatto che persone più grandi, invece, non aderivano alle misure. I giovani sentivano di dover portare un fardello più pesante rispetto alle generazioni più anziane».

Necessaria una comunicazione mirata

Lo scopo del progetto, oltre a conoscere la percezione dei giovani, è anche quello di fornire delle raccomandazioni alle organizzazioni sanitarie. «È importante che la comunicazione sia scientifica, onesta e affidabile», riporta Suggs. «Dovrebbe essere mirata al gruppo di persone che intende raggiungere. Questa segmentazione non dovrebbe considerare solo i dati demografici, ma anche le variabili sociali, ambientali, culturali, ideologiche e comportamentali. Per fare ciò è necessario usare fonti e relatori affidabili e influenti. È molto importante pure spiegare le motivazioni che hanno portato a prendere determinate decisioni o imporre misure». I ricercatori consigliano inoltre di rendere la comunicazione più interattiva ascoltando le preoccupazioni delle persone «e di modellarla secondo i bisogni della popolazione».

Il gruppo di ricercatori raccomanda alle organizzazioni che si occupano di salute pubblica un’ulteriore valutazione della comunicazione pubblica, anche poco dopo la diffusione di un’informazione. Può essere utile fare «un veloce esame iniziale di come essa viene percepita in modo tale da poter fare, se necessario, dei rapidi aggiustamenti», riporta la ricercatrice. Inoltre viene auspicato «il coinvolgimento delle Ong, delle aziende e dei membri della popolazione più giovane nella valutazione e nella preparazione di strategie per le crisi future». Sempre sulla base dei risultati del sondaggio e delle interviste, combinati con l’analisi del discorso dei media e gli input degli esperti intervistati in tutto il Paese, gli esperti consigliano di mantenere, rafforzare e far progredire i canali di comunicazione ufficiale (per esempio conferenze stampa del governo, canali twitter, Tv e radio), come pure il principio di una comunicazione univoca. Questo significa «riportare su canali differenti la stessa versione affidabile e basata su dati scientifici del problema e non creare confusione. È necessario inoltre un ulteriore sviluppo delle strategie di comunicazione e di organizzazione dei media specifici (Instagram, Youtube) di messaggi e design per il tipo di popolazione che si vuole raggiungere. «Tutti i canali sono utili per raggiungere la popolazione ed è importante utilizzarli in maniera coordinata».