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2001 odissea nel Gottardo (come l’abbiamo vissuta noi)

A vent’anni dal drammatico incendio che fece undici morti ripercorriamo quelle ore e le settimane successive con Mauro Chinotti e Mario Gagliardi

Lo scatto di Claudio Grassi che ha fatto il giro del mondo (Ti-Press - Grassi)

A vent’anni dal drammatico incendio che fece undici morti ripercorriamo quelle ore e le settimane successive con Mauro Chinotti e Mario Gagliardi

22 ottobre 2021
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In un autunno nero dopo l’attacco alle torri gemelle, il fallimento Swissair e la strage al Gran Consiglio di Zugo, la mattina del 24 ottobre 2001, un mercoledì, Airolo piomba nel silenzio assordante della colonna di fumo che s’innalza dal camino d’areazione della galleria autostradale più lunga d’Europa impregnando l’aria di un odore acre. Alle 9.39, un chilometro dopo il portale ticinese, il Tir guidato da un camionista turco ubriaco diretto a nord sbanda e si scontra con un autoarticolato italiano carico di copertoni. Al volante Bruno Saba di Ivrea: 31 anni e riflessi pronti, intuendo la gravità si precipita fuori dalla cabina e corre verso nord esortando le persone incolonnate a mettersi in salvo. Quattro minuti dopo, alle 9.43, un cortocircuito scatena l’inferno. L’incendio raggiunge i 1’200 gradi e si spegnerà dopo quasi due giorni. Oltre al camionista responsabile moriranno asfissiate dieci persone. Oggi, vent’anni dopo, l’aria di Airolo è scossa dalle ruspe che spianano i terreni dove sarà depositato il materiale di scavo del secondo tunnel. Pronto nel 2029, migliorerà la sicurezza del transito non più bidirezionale e sfocerà nel risanamento ambientale del fondovalle.

“L’incidente catalizzò ben presto l’attenzione internazionale e nei paraggi sorsero come funghi le parabole per le dirette televisive”

Mauro Chinotti, il sindaco di allora che negli anni 70 partecipò alla direzione lavori e che nel 2001 era il vicecapo esercizio della galleria, ripercorre gli eventi e quei giorni durante i quali Airolo finì al centro della cronaca internazionale. Dopodomani, domenica 24, organizzerà inoltre una cerimonia di commemorazione a invito, quindi non aperta alla popolazione, davanti al monumento che ricorda le vittime.

Cosa ricorda dei primi istanti?

Durante una riunione la centralinista ci avvisò dell’incidente. Ci dividemmo subito i compiti: al capo esercizio Mario Gagliardi la parte tecnica, a me quella operativa. Osservando le immagini dalla sala comando e il fumo che cominciava a uscire dal camino, ci rendemmo subito conto dell’estrema gravità di quanto stava succedendo, ma non la sua ampiezza.

Eravate pronti?

Sin dall’inaugurazione del tunnel, nel 1980, avevamo allenato la prontezza d’intervento su vari scenari. Ma talvolta la realtà supera la teoria e quanto accaduto quel giorno lo dimostra. I pompieri entrati persero ben presto il contatto radio con noi a causa dei danni subiti dalle infrastrutture elettriche. Inoltre il forte calore sprigionato impedì loro d’intervenire direttamente sulle fiamme. Indietreggiarono e raffreddarono fin dove poterono.

Disponevate di un team all’altezza?

Negli anni precedenti ricordo di aver dovuto insistere parecchio con le autorità per poter disporre di un corpo d’intervento ben attrezzato e formato. E così dal 2000 i pompieri al comando dell’ingegner Peter Fehr erano dotati di automezzi nuovi e coordinati da due ufficiali professionisti. Pompieri dislocati ai due portali e che oltre ai picchetti per incidenti e incendi si occupavano della manutenzione. La prontezza d’intervento dunque c’era. Poi nel 2008, grazie alla nuova perequazione finanziaria, con un mandato di prestazione l’esercito è stato incaricato di condurre il Centro d’intervento Gottardo tutt’oggi attivo impiegando pompieri professionisti e specializzati.

Ci fosse già stato un Cig quel 24 ottobre 2001, le cose sarebbero andate diversamente?

Non credo. Le varie inchieste fatte hanno stabilito che la prontezza d’intervento c’era, ma era impossibile, nei quattro minuti intercorsi tra l’impatto frontale e l’innesco dell’incendio, raggiungere il punto, sebbene situato a un solo chilometro dal portale sud, e mettere in atto tutte le misure preventive atte a impedire quanto è poi successo. Certo, negli anni successivi la prontezza è stata ulteriormente migliorata. Ma il tempo di reazione, gli automezzi a disposizione, che in gran parte sono oggi identici a quelli di allora, e la dinamica dell’innesco mi inducono a ritenere che non si sarebbe riusciti a evitare la disgrazia. Bisogna comunque sottolineare che il Cig è oggi più performante in un’ampia paletta di situazioni critiche.

Fuori la gente s’interrogava. Come ha reagito Airolo?

In breve tempo il cielo si coprì di una cappa grigia e buia. L’appello immediato, non conoscendo il contenuto dei camion incendiatosi, fu di chiudere le finestre e tapparsi in casa. Ma nel volgere di qualche ora si capì che c’era poco di nocivo. Sebbene gli airolesi siano storicamente connessi alle vie di comunicazione e a quanto vi gira attorno fra benefici economici e svantaggi ambientali, e nonostante di incidenti più o meno gravi ve ne siano stati a centinaia nel corso dei secoli, nel villaggio lo choc fu grande. Lo si vide bene quando il vescovo Torti celebrò la messa in ricordo delle vittime in una chiesa gremita e colma di emozione. La comunità, sentitasi toccata, si strinse attorno ai familiari e a chi fu chiamato a gestire l’emergenza.

Airolo, e voi stessi, assediati dai media. Da zero a cento in tre secondi, anche nel dover rispondere alle esigenze informative.

Alle 14 iniziò la prima riunione di crisi e verso le 17 fummo attorniati dai primi gruppi di giornalisti. L’incidente catalizzò ben presto l’attenzione internazionale e nei paraggi sorsero come funghi le parabole per le dirette televisive. Andò bene con quasi tutti, a parte con alcuni media italiani assetati di scoop a tal punto da esasperare la situazione e pubblicare notizie inveritiere. C’era molta pressione. Tanto che un quotidiano, probabilmente insoddisfatto di quanto veniva spiegato durante i frequenti info-point, mi diede del supponente e un cardinale di Torino, solito a trascorrere le ferie in Leventina, mi difese subito con un corsivo ottenuto sulla prima pagina di quel giornale.

La sua vita è cambiata da allora?

Ho la scorza dura, ma non riesco a cancellare quelle immagini. Ogni tanto ritornano, specialmente di notte. Mi aiuta il fatto di essere stato sempre ‘al fronte’ in ambito professionale, confrontato con un rischio latente di dover fare i conti prima o poi con incidenti anche gravi, come in effetti era capitato in un cantiere. A ogni modo dopo il 24 ottobre non feci capo all’aiuto psicologico offertomi. E nonostante la scomparsa improvvisa di un caro amico e collega mi causò, nei giorni successivi all’incendio, un dolore immenso, riuscii a far capo alle mie energie per affrontare con i colleghi la sfida della riapertura del tunnel il prima possibile.

Una sfida vinta contro i pronostici. Filò tutto liscio?

Preventivai una spesa di ripristino pari a 15 milioni e mezzo di franchi e una sessantina di giorni di lavoro. Se ne spesero 15,3 e ci vollero 58 giorni. Fummo facilitati da procedure agevolate nelle commesse e nel coinvolgimento delle ditte, oltre che da condizioni meteo favorevoli che permisero di tenere aperto il passo del Gottardo fino al 21 dicembre, giorno di riapertura della galleria. Guardandoli oggi, quei mesi furono per me una grande occasione di crescita personale. Non vorrei risultare presuntuoso, ma tutti insieme dimostrammo l’efficienza elvetica. Basti pensare che per risanare il tunnel del Monte Bianco, dopo l’incendio del 1999 che fece 39 vittime, ci vollero due anni e mezzo.

Vent’anni dopo, si lavora oggi al secondo tubo che sfocerà nel risanamento del fondovalle ottenuto in tempi record negli ultimi anni.

In realtà l’input fu dato dal Municipio proprio nel 2001. Preoccupati per i sette milioni di transiti annuali, inviammo una lettera a Berna sollecitando la necessità di procedere con la copertura dell’autostrada. E non mancò chi ci diede dei pazzi.

Le migliorie

“Insisto dunque sulla necessità di avere la giusta percezione del pericolo”

Autosalvataggio e aspirazione fumi

Mario Gagliardi, una vita dedicate alle strade: ingegnere di formazione, si è occupato della rete stradale e autostradale cantonale e nazionale. Dalla costruzione alla manutenzione. Oggi è consulente per un importante studio d’ingegneria in ambito di tunnel e coordina il simposio annuale dell’associazione europea che riunisce i gestori delle gallerie monotubo bidirezionali. Nel 2001 era il capo esercizio nel Gottardo.

Si diceva che fosse la galleria più sicura d’Europa. Era davvero così?

Fu progettata con le migliori concezioni conosciute allora. Il sistema era dimensionato per sopportare una potenza termica di 30’000 kW, ma quel giorno se ne raggiunsero 200’000. Oltre ad avere una lunghezza record di 17 chilometri, ha l’andicap di essere bidirezionale. Due fattori che da soli incidono notevolmente sul concetto di sicurezza. L’anno prossimo sarà inaugurato il secondo tubo al Fréjus, perciò la galleria monotubo del Gottardo rimarrà in compagnia di quelle simili del Monte Bianco e dell’Arlberg in Austria, quest’ultima l’unica a disporre di un dispositivo antincendio automatico con ugelli, a quanto pare abbastanza performante.

Quali le modifiche intervenute dopo il 2001?

Parecchie. Anzitutto l’autosalvataggio: sono state migliorate la segnaletica e le informazioni, ossia gli aspetti principali che riguardano la gestione, dal punto di vista degli utenti, dei primi dieci minuti dopo un incidente o incendio. Minuti e gesti fondamentali per mettersi in salvo. Sono inoltre intervenute diverse migliorie tecniche. La più importante è stata l’aspirazione forzata dei fumi, peraltro già in cantiere al momento dell’incidente: nella soletta sono state ricavate aperture di un metro per un metro ogni cento metri, dotate ciascuna di clappe automatiche controllate a distanza che si aprono e chiudono nei punti desiderati convogliando il flusso d’aria dentro l’apposito canale di espulsione. Una soluzione aggiuntiva sia alle più piccole aperture presenti in origine, caratterizzate da griglie statiche con potere aspirante limitato, sia ai due grandi camini dai quali per due giorni uscì il fumo nero dell’incendio. La potenza di aspirazione è stata dunque notevolmente aumentata, riducendo di conseguenza la stratificazione e l’espansione dei fumi e migliorando visibilità e respirabilità. Uno dei maggiori problemi verificatisi vent’anni fa è che il fumo anziché venire risucchiato verso l’alto ed espulso proseguì il suo cammino verso nord, verso il tratto centrale della galleria, causando undici morti per asfissia. Così, infatti, era stato concepito il sistema d’aerazione in origine, per favorire l’entrata dei mezzi di soccorso dai rispettivi portali.

Quel giorno nessun mezzo di soccorso riuscì a gestire l’incendio. Oggi sarebbe diverso?

La prontezza di allora, ossia tre minuti di tempo per partire e circa altri due per raggiungere il punto a un km dal portale sud, corrisponde a quella odierna. I quattro minuti intercorsi fra scontro e incendio, nonché il fatto che i due camion dopo l’impatto ostruissero la carreggiata, hanno reso impossibile ogni tentativo.

Probabilmente molti conducenti non sanno cosa fare in presenza di un incidente con incendio e fumo.

Al Monte Bianco e al Fréjus, essendoci lo stop obbligato per pagare il pedaggio, a ciascun conducente viene consegnato un foglio informativo che manca invece al Gottardo, dove il messaggio vocale radiofonico non raggiunge i veicoli con autoradio spenta. Il 24 ottobre 2001 il fumo si spinse nel tunnel in direzione nord per circa un chilometro e mezzo e dalle 50 alle 70 persone si misero in salvo entrando nel cunicolo di sicurezza. Al contrario, un camionista morì tornando verso la propria cabina per recuperare il portamonete dimenticato. È prioritario dunque allontanarsi senza esitare dalle fiamme e dal fumo, che nel giro di pochi respiri è letale, dirigendosi verso il rifugio più vicino indicato dalle frecce. Insisto dunque sulla necessità di avere la giusta percezione del pericolo.

Ha necessitato di un aiuto speciale per elaborare la portata di quella tragedia?

No. Come anche Mauro Chinotti, non ne sentii l’esigenza. Non perché ci considerassimo persone in qualche modo speciali, ma perché ci rendemmo subito conto che stavamo andando verso una mole spaventosa di lavoro e moltissimi aspetti da gestire per ripristinare il prima possibile la galleria. La pressione ci aiutò a non pensare troppo alla drammaticità di quanto era sotto gli occhi di tutti.