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Mondiali 90, quella terribile estate italiana

3 luglio 1990: l'Italia esce dal 'suo' Mondiale, uno dei più brutti di sempre, poi vinto dalla Germania. L'ultimo della Jugoslavia prima della guerra

L'uscita di Zenga, l'uscita dell'Italia (Keystone)

3 luglio 1990: l'Italia esce dal 'suo' Mondiale, uno dei più brutti di sempre, poi vinto dalla Germania. L'ultimo della Jugoslavia prima della guerra

3 luglio 2020
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di Sebastiano Storelli

Il capitolo finale dei Mondiali di Italia 90 sta tutto in quel ruzzolone in area di Völler a contatto con Sensini, dal quale nacque il rigore trasformato da Brehme per il terzo titolo mondiale del calcio tedesco e la mancata doppietta dell’Argentina. Sta tutto lì, perché quella dell’8 luglio allo stadio Olimpico di Roma viene ricordata come una delle più brutte finali della storia della Coppa del mondo. In linea, per altro, con quanto fin lì mostrato il torneo: la media gol più bassa della storia (2,21 a partita), un gioco improntato sul difensivismo (quasi tutte le squadre applicavano una rigorosa difesa a 5) e spettacolo ridotto al minimo, da far rimpiangere addirittura i 2’250 metri di Città del Messico dell’edizione precedente.

Nonostante tutto, qualche spunto di discussione ci fu comunque, più che atro episodi che sono poi entrati a far parte dell’immaginario collettivo calcistico. Bisogna però parlare di storia con la esse maiuscola quando si affronta il tema della Jugoslavia. Squadra di immenso talento (a centrocampo schierava in contemporanea Savicevic, Stojkovic, Jarni e Prosinecki), come troppo spesso successo al calcio balcanico si sciolse come neve al sole proprio sul più bello. Nei quarti di finale contro l’Argentina, gli uomini di Ivic Osim portarono la sfida ai rigori, nonostante l’inferiorità numerica dal 30’. Ma dal dischetto sbagliò proprio la stella più luminosa, Dragan “Piksi” Stojkovic (palla sulla traversa), imitato per altro da Maradona (parato). Alla fine, l’eroe fu Sergio Goycochea, portiere di riserva dell’Albiceleste, titolarizzato per l’infortunio subito da Pumpido contro l’Unione sovietica (frattura di tibia e perone), e rivelatosi un vero e proprio para rigori. In semifinale ad affrontare l’Italia ci andarono i sudamericani e quel rigore sbagliato da Faruk Hadzibegic fu l’ultimo lampo calcistico della Jugoslavia. Il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia avrebbero dichiarato l’indipendenza, la guerra dei Balcani sarebbe scoppiata in tutta la sua ferocia e nel 1992 l’Uefa avrebbe impedito alla Jugoslavia la partecipazione all’Europeo, ripescando al suo posto la Danimarca, poi vincitrice tra lo stupore generale. Nei Balcani molti restano convinti che se quel rigore non fosse stato sbagliato e Stojkovic e compagni avessero vinto i Mondiali, la guerra, forse, non sarebbe scoppiata. Una bella favola, più che una concreta speranza: nemmeno la vittoria del titolo mondiale di basket, conquistato un mese e mezzo più tardi proprio a Buenos Aires da una squadra formidabile guidata da Drazen Petrovic, Toni Kukoc e Vlade Divac, riuscì a placare i venti di guerra.

La Mano de Dios 2.0

Nel calcio il confine tra vittoria e sconfitta è spesso tracciato da un singolo episodio e Italia 90 ne propose due indimenticabili: la Mano de Dios 2.0 e il dribbling di Higuita. Nel primo caso Diego Maradona, quattro anni dopo il gol segnato di mano all’Inghilterra, riuscì a ripetersi, questa volta negando, sempre di mano, il gol del vantaggio all’Unione sovietica. Dopo la clamorosa sconfitta all’esordio contro il Camerun, l’Argentina non poteva fallire anche contro i sovietici: ancora una volta il Pibe de oro ci mise del suo e ancora una volta l’arbitro non si accorse di nulla. René Higuita, quello della mossa dello scorpione, condannò la Colombia all’eliminazione negli ottavi contro il Camerun. Portiere eclettico, a Higuita piaceva giocare il pallone con i piedi, anche fuori dalla sua area di rigore: al 109’ un maldestro tentativo di dribbling ai danni di Roger Milla permise al 38.enne attaccante africano di rubare palla e andare a firmare il 2-0 (la partita finì 2-1). Erano gli anni d’oro del calcio colombiano, foraggiato dai cartelli della droga. E proprio Higuita avrebbe pagato le pericolose amicizie di tutti i calciatori “cafeteros”: fu arrestato dopo aver reso visita a Pablo Escobar nella sua principesca prigione de La Catedral (gli venne affibbiata un’accusa di sequestro di persona) e non prese parte ai Mondiali 1994.

Altri spunti. Quello di Italia 90 fu il Mondiale delle africane. O meglio, del Camerun che dopo aver battuto l’Argentina all’esordio e la Colombia negli ottavi, nei quarti trascinò l’Inghilterra ai supplementari dopo essere stato in vantaggio 2-1 fino all’82’. La favola si infranse però sul gol del 3-2 di Lineker. Si pensò che il calcio africano fosse finalmente pronto per recitare un ruolo da protagonista, ma nelle sette edizioni seguenti della Coppa del mondo soltanto Senegal (2002) e Ghana (2010) hanno raggiunto i quarti di finale.

L’Argentina del Narigon Bilardo sfiorò il secondo titolo consecutivo. Ma non era una grande Argentina e a differenza di quella di Messico 86 non poteva contare su un Maradona stratosferico. El Diez era in condizioni fisiche approssimative e in tutto il Mondiale fu protagonista di due soli guizzi: la Mano de Dios 2.0 e il geniale passaggio che mandò in porta Claudio Caniggia nell’ottavo di finale contro il Brasile. Quello non era un Brasile stellare, Sebastiao Lazaroni lo aveva costruito pensando in primo luogo alla fase difensiva. A centrocampo spiccavano Dunga e Mazinho, in difesa un 29.enne centrale rimasto beffato dal tocco di Maradona e che quella stessa estate sarebbe atterrato a Lugano per rimanervi fino al 1996 (186 partite e 26 reti): Mauro Geraldo Galvao, uno dei giocatori più forti ad aver militato nel campionato svizzero.

Notti magiche

Diego, Napoli ti ama ma l’Italia...

di Daniel Ritzer

'Diego, Napoli ti ama ma l’Italia è la nostra patria'. Quel 3 luglio di trent’anni fa uno striscione al San Paolo sintetizzava, preciso, tutto il ‘pathos’ di una partita indimenticabile. Italia – Argentina, semifinale dei Mondiali di 1990. Quel mondiale italiano che gli azzurri avevano organizzato per vincerlo. L’Italia di Baresi, Baggio, Donadoni, Zenga e Schillaci era arrivata come un treno a un passo dalla finale: tutte le partite vinte senza subire neanche una rete. Dall’altro lato un’Argentina mediocre dal punto di vista tecnico, una squadra di operai e sicari, guidata però dallo stesso genio che quattro anni prima si era insediato sul trono del calcio mondiale. Maradona era lì, malconcio, ma pur sempre lui. Il percorso argentino alla semifinale, d'altronde, era stato tutt’altro che brillante: una bruciante sconfitta contro il Camerun, alla partita inaugurale del campionato, aveva messo in ridicolo la squadra di Carlos Bilardo. Tutto San Siro si era goduto la vittoria africana e l’umiliazione di Maradona e i suoi. Chiaro, Milano non dimenticava che solo pochi mesi prima quel argentino indomabile aveva di nuovo portato il ‘suo’ Napoli ad alzare un altro Scudetto, proprio in faccia al Milan di Sacchi. “L’unico piacere di questo pomeriggio è stato scoprire che, grazie a me, gli italiani di Milano hanno smesso di essere razzisti: oggi, per la prima volta, hanno fatto il tifo per degli africani”, aveva dichiarato Maradona alla fine della prima partita. Ed era solo l’inizio di quella meravigliosa estate italiana.

'Diego, Napoli ti ama ma l’Italia è la nostra patria'. E lui amava i napoletani. Alla vigilia della semifinale Maradona, di nuovo e come al solito, non si risparmia nulla davanti ai microfoni: “Per 364 giorni su 365 chiamano ‘terroni’ i napoletani, ma questa volta gli chiedono di essere italiani.L’Italia si ricorda che sono italiani solo quando devono sostenere la Nazionale, poi si dimentica di come li tratta”. L’Azzurra era favoritissima: forte in attacco, solida in difesa e giocando in casa. L’appuntamento finale all’Olimpico di Roma era già segnato nell’agenda di tutti gli italiani. Lasciare fuori l’Argentina di Maradona, campione in carica, doveva essere soltanto l’antipasto. Ma i napoletani sapevano bene di cosa era capace quel piccolo gigante con il numero ‘10’ alle spalle. Quanto cara ti sarebbe poi costata quella vittoria, Diego. A te, a Caniggia, e ai milioni di argentini che quel freddo pomeriggio di luglio guardavamo le tue prodezze davanti allo schermo.

'Diego, Napoli ti ama ma l’Italia è la nostra patria'. Dunque: la madre terra o il padre santo? Che dilemma! Ma alla fine il San Paolo disse la sua: Donadoni ha appena sbagliato il suo calcio di rigore. Diego, che nei quarti aveva sbagliato pure il suo contro la Jugoslavia, inizia a camminare dal centro del campo fino al dischetto. Prende il pallone e si prepara a tirare il (psicologicamente) decisivo ottavo rigore della serie. Viene fischiato da tutto lo stadio. Anni dopo racconta: “Mentre mi avvicinavo al dischetto mi dicevo: questa volta non puoi sbagliare, se sbagli non sei un uomo, se  sbagli non ti voglio più vedere. Poi arrivo lì e Zenga mi dice: ci conosciamo, Diego. Certo che ci conosciamo, ti ho segnato mille volte, gli rispondo. Sapevo che lui sceglieva sempre un lato, ho quindi aspettato un suo passo, tenendo ferma la gamba sinistra che mi tremava. L’ho visto andare a destra e allora ‘tac’, ho tirato morbido dall’altra parte”. “Grande Diego! Col pugno in alto e senza rinunciare a nulla”, urla alla radio il cronista argentino per eccellenza, Victor Hugo Morales (che, come Gardel, non è argentino ma uruguaiano).

'Diego, Napoli ti ama ma l’Italia è la nostra patria'. "Hay amores que matan", cantava in quei anni il terribile duetto argentino ‘Pimpinela’. La fine della storia la si conosce: il portiere Sergio Goycochea para anche il rigore di Aldo Serena e diventa l'eroe argentino dei Mondiali. L’Italia è fuori. L’Argentina va in finale. A Roma poi il diktat della Fifa è chiaro a tutti: Maradona non può vincere. L’arbitro messicano Edgardo Codesal segue le istruzioni e regala ai tedeschi quel rigore che Andreas Brehme trasforma nell'unica rete di una bruttissima finale. Il ricordo d'Italia 90 si chiude, ahimé, con le lacrime di Maradona mentre riceve la medaglia del secondo posto, le lacrime di un intero Paese che comunque, orgoglioso del suo capitano, esce per strada a “festeggiare” la degna sconfitta (a me che ero solo un ragazzino, e che l’unica cosa che volevo era rimanere in bagno a piangere tutta la sera, mia mamma mi costrinse a scendere in piazza). Una nazione che trent’anni dopo continua a ribadire: Diego, siamo la tua patria e ti amiamo. Per sempre.

Notti tragiche

Perché ‘’a nuttata’ non è mai passata

di Beppe Donadio

“Dov’eri la sera di Italia-Argentina?” è domanda che gli italiani con età sufficiente per avere ricordi calcistici preferiscono non farsi. O non farsi fare. Perché esattamente come la mamma, di Italia-Argentina ce n’è una sola. Ma è una madre così disgraziata da far dimenticare l’Italia-Argentina di Roberto Bettega, che il 10 giugno del 1978 aveva segnato ai futuri campioni del mondo davanti al pubblico e ai militari in borghese del ‘Monumental’ di Buenos Aires, stadio del River Plate. Meglio dunque "Dov'eri la sera di Italia-Germania 3-1?", che nonostante coincida col trionfo di Spagna '82 resta comunque un gradino sotto il potere evocativo di “Dov’eri la sera di Italia-Germania 4-3?”, anche quando l’età non è sufficiente a ricordarsi l’aver percorso, il 17 giugno del 1970, intere arterie di traffico sdraiati sul sedile di dietro di un maggiolino Volkswagen, semiaddormentati e sordi ai clacson di una città del nord Italia sveglia sino alle tre del mattino. Per la gioia di un popolo intero e di una categoria in particolare (quella degli elettrauto). 

Vent’anni dopo. Napoli, Stadio San Paolo, martedì 3 luglio 1990, primo canale Rai: “L’Argentina è finalista in Coppa del Mondo. Sono immagini che non avremmo mai voluto commentare”. Povera patria, povero Bruno Pizzul, che per raggiunti limiti di età non riuscirà a gridare “Campioni del Mondo” nemmeno nel 2006, quando ai Mondiali di Germania il popolo italiano si butterà alle spalle la ‘maledizione dei rigori’ (anche detta ‘lotteria’). E al rigore di Grosso in Italia-Francia, sedici anni più tardi, quando sarà già in pensione da quattro, il telecronista friulano si sarà già fatto carico di altre televisive sventure calcistiche: dal rigore di Baggio a Usa ‘94 (“Alto. Il Campionato del Mondo è finito. Lo vince il Brasile”) all’epilogo azzurro a Francia ‘98 (“È finita. La Francia va in semifinale. Ancora una volta i rigori ci sono stati fatali”). Fino al golden-gol di Euro 2000 (“Trezeguet ha segnato il 2-1 per la Francia ed è finita come peggio non poteva”). Tutte occasioni per le quali è davvero ingeneroso chiedere a un italiano dove si trovasse quella notte.

Sconfessando l’auspicio di Eduardo, per qualcuno quella ‘nuttata’ del 1990 non è mai passata. Fino al 68esimo minuto di Italia-Argentina al San Paolo di Napoli, infatti, l’Italia delle tv accese, delle bandiere cucite a mano, di quelle sventolate senza sosta all’Olimpico di Roma e in ogni carosello post-vittoria, l’Italia di Italia ’90 aveva pianificato dove e come festeggiare la finale, al termine di quello che – fino al colpo di nuca di Caniggia – era parso un percorso netto, interrotto da un'unica, imperdonabile ma perdonata, disattenzione. Peccato per quella nazionale non toccata da scandali, per quel vivaio arrivato fino alla prima squadra, per l’Azeglio Vicini allenatore gentiluomo e per Totò Schillaci, che ancora non aveva il parrucchino. “Purtroppo è bruttissimo da vedere, andrebbero mandati a letto i bambini”. Così, la sera di Italia-Austria, esordio degli azzurri ai Mondiali di casa, lo avevano presentato al pubblico radiofonico quelli della Gialappa’s, che da alcuni anni commentavano in radio il grande calcio rendendolo finalmente più umano più vero (cit.) e creando nuovi linguaggi, dalla “minella sapida” al “gollonzo” (quest’ultimo entrato poi nello Zingarelli). Neologismi, dissacrazione, geniale cazzeggio e tanti nuovi (anti)eroi come Peter Shilton, estremo difensore della nazionale inglese chiamato per tutto Italia ’90 “Un vecchio”, accompagnato nei suoi rinvii da un mesto cigolio fuori campo per l’ilarità di appassionati di calcio e simpatizzanti semplici. Una rivoluzione, quella della Gialappa’s, cui partecipare accendendo la radio ed escludendo l'audio, sin troppo impettito, che arrivava dalla tv.

Sui rigori di Italia-Argentina, col sottofondo di ‘Cockeye's song’ (il Morricone di ‘C’era una volta in America’), il disperato sarcasmo della Gialappa’s salvò molti italiani dal lugubre e parallelo resoconto di Pizzul, più vicino alla cronaca di Alfredino caduto nel pozzo che al dramma sportivo. Trent'anni dopo, un ricordo su tutti, anche in nome dell'autoaiuto: sarà anche stato bruttissimo da vedere, ma in quell’Italia-Austria del 9 giugno, una volta preso il posto di Carnevale, tempo due minuti e mezzo e Totò Schillaci saltava in mezzo a due perticoni austriaci segnando addirittura di testa. Tutto era iniziato così, con l’Italia che s'inteneriva per un siciliano anch’egli, a suo modo, antieroe. Ecco, magari suonerà un po’ Miss Italia, ma ancora oggi, per noi, Italia ’90 finisce lì. Dov’era cominciata.

 

La musica

Elii, Pierangelo Bertoli e l’inno alternativo

di Beppe Donadio

L'ha detto la Gazzetta, lo dice Giorgio Moroder, autore: ‘Un’estate italiana’, l’inno cantato da un laccatissimo Edoardo Bennato e dalla già ipermelodica Gianna Nannini, fu scelto dalla signora Matarrese moglie di Antonio, al tempo presidente della Federazione italiana giuoco calcio. Per lui, l’architetto Renzo Piano disegnò 'L’astronave', lo stadio San Nicola grazie al quale Bari fu una delle sedi di Italia ’90. Ma sotto la doccia degli amanti della radio, in quei giorni, si canticchiava anche un inno meno autocelebrativo intitolato ‘Giocatore Mondiale’. Elio e le Storie Tese ancora dovevano mandare alle stampe il monolite ‘Italyan, Rum Casusu Çikti’ (quello di ‘Servi della gleba’), ma già imperversavano con un primo album (quello di ‘John Holmes’) riepilogativo di un successo costruito sul talento e sul passaparola. E ‘Giocatore Mondiale’ era una proto-Terra dei Cachi a sfondo calcistico che già non risparmiava nessuno. Faso, bassista degli Elii (o EelST, ma anche Complessino), racconta alla ‘Regione’ di quel singolo: «Tra di noi c'erano un Elio e un Mangoni cultori di calcio senza essere invasati. Il resto della band si divertiva a vedere quel che succedeva nel calcio degli anni '90 e ancora si diverte oggi, visto che non è cambiato niente. Non a caso il testo cita alcuni momenti 'bellissimi' della tifoseria, come il tifoso ucciso da un razzo sparato dalla curva opposta (Vincenzo Paparelli, ndr) o le storie di gente che di norma si mena per esprimere entusiasmo».

Attingendo dall’attualità di quei giorni, l'inno, dicevamo, ne aveva per tutti. A partire dal "muratore che cade", simbolo dei molti morti sul lavoro per costruire o rinnovare gli stadi di Italia '90 (“Ma questo tragico evento non intaccherà la fiducia che il mondo ripone nel nostro paese ripieno di pizza, canzoni ed amor”). Nella canzone, tra citazioni di Sandro Pertini e Nando Martellini, insieme a un immaginario Luca di Montezuma (già Montezemolo), ecco il compianto Pierangelo Bertoli in carne ed ossa: «Venne lui a registrare da noi. Persona deliziosa. L’autoironia non è una cartuccia che hanno tutti nel caricatore. E con grande, enorme autoironia cantò quanto fosse bello andare alla partita in carrozzella visto che le barriere architettoniche rimanevano ovunque, ma allo stadio le avevano tolte. Perché la cosa importante, e lo abbiamo visto anche in questi giorni di pandemia, è innanzitutto sapere quando il calcio può ricominciare. Succedeva anche nel ’90, quando le persone in carrozzina non riuscivano a entrare in una cabina telefonica, però gli stadi erano stati allargati». E infatti Bertoli canta: “La vita è bella, perché le cabine son strette ma largo è lo stadio. Solo alla morte non c’è rimedio”. «Perché l’importante è che si veda bene il calcio. Il resto è tutto secondario».  

Con ‘Ameri’, ‘Sunset boulevard’, ‘Amico Uligano’ e 'Nessuno allo stadio', dedicata dagli Elii a Usa ’94 stante il flop di pubblico in una terra che con il soccer non aveva feeling (“Guardate Lorena Bobbit, pensate a suo marito: quale interesse ripone lui nei mondiali, secondo voi?”), 'Giocatore Mondiale' alimenta la sezione calcistica del repertorio del Complessino. «Confesso che tra le nostre sigle del calcio ci sono cose che mi piacciono tanto, pur non essendone io, come forse si è capito, un cultore. Ma non è un fatto di disciplina sportiva, quanto di ‘intorno’ che non amo». Insomma, per citare la canzone, dopo trent'anni Faso sostiene ancora la teoria dei “ventidue palloni in campo" e "ognuno tira nella porta che vuole”: «Sì, sarebbe fantastico. Uno stratagemma per placare gli ultrà che si scaldano per tutto. Si scaldano se vinci, si scaldano se perdi». A proposito di 'perdi': dov’era Faso la sera di Italia-Argentina? «Ah, su questo non ho dubbi: stavo facendo qualcos’altro. Perché appena c’è una partita di calcio io esco e vado a fare un’altra cosa».

Calcio e politica

L'ola di Andreotti e il Mondiale da bere

di Lorenzo Erroi

Me la ricordo come se fosse ieri, la formazione di Italia ‘90: De Michelis, Gava, Vassalli, De Lorenzo, Cirino Pomicino. Commissario tecnico: il plenipotenziario democristiano Giulio Andreotti, al suo sesto governo col leggendario pentapartito. A quell’estate caldissima si era arrivati in realtà con una riunione Fifa del 1984, c’era il socialista Bettino Craxi alla Presidenza del consiglio e dagli ‘svizzeri’ Roma ottenne carta bianca: libertà di organizzarsi quasi da sola quello che prometteva di essere il primo mondiale moderno dal punto di vista del marketing, delle tecnologie informatiche e degli impianti sportivi. L’Italia arrivò alla cerimonia d’apertura con la convinzione di essere predestinata: non solo per via dei successi calcistici – i suoi club dominavano le coppe europee, davanti a tutti il Milan di Silvio Berlusconi –, ma anche perché il paese era in preda a un’euforia che sentiva lontani gli anni di piombo e non poteva ancora prevedere Tangentopoli, in arrivo due anni dopo. Era la ‘Milano da bere’ dell’Amaro Ramazzotti, per capirci, dove lo spreco era considerato il segno che ‘c’è chi può’.

Nei capoluoghi di regione sorsero stadi enormi e surreali: il Delle Alpi di Torino, spazzato dagli spifferi e dove non si vedeva nulla per via della pista d’atletica, smantellato dopo soli 16 anni; il San Nicola di Bari, l’‘astronave’ progettata da Renzo Piano, con una copertura di quel teflon che si usa per le padelle, destinata a cadere a pezzi poco dopo. E poi l’Hotel Mundial, ecomostro di Ponte Lambro mai inaugurato e abbattuto nel 2012; o ancora il Terminal Ostiense e la stazione Farneto-Olimpico di Roma, che restò aperta solo per la durata del Mondiale e venne occupata dai centri sociali fascisti. Doveva essere l’evento che rilanciava le ‘eccellenze italiane’, slogan caro a ottimisti e cialtroni. La defunta Olivetti sviluppò per i giornalisti un sistema di posta elettronica ante litteram, i ‘campioni nazionali’ dell’industria si fecero sponsor ufficiali della manifestazione, e il fatto che la Francia non si fosse qualificata regalava quel qualcosa in più di dispettosa presunzione.

Con spese raddoppiate rispetto ai preventivi già mostruosi, infrastrutture fatiscenti e lunghi strascichi legali e finanziari – nel 2015 restavano ancora debiti per oltre 60 milioni di euro – il Mondiale sarebbe invece diventato quasi subito il passato di un’illusione, goffa quanto la ola del Divo Giulio dalla tribuna d’onore.

A scomparire, prima ancora del Delle Alpi e delle piste d’atletica, sarebbe stato proprio il Pentapartito. Ci avrebbe pensato la Procura di Milano, certo, ma anche la perdita di centralità dell’Italia nella mappa geopolitica. D’altronde, il 1989 aveva già visto la caduta del muro di Berlino, anche se a San Siro sarebbe arrivata ancora la ‘Germania Ovest’ (mentre l’Unione Sovietica era a Napoli); quell’anno noi bambini avevamo scartato i regali di Natale davanti alle immagini del cadavere di Ceausescu. A Firenze, in uno sciagurato quarto di finale con l’Argentina, la Jugoslavia giocò la sua ultima partita prima del massacro: al capitano Faruk Hadzibegic rinfacciano ancora quel rigore sbagliato come una sconfitta militare (ne parla il giornalista Gigi Riva in un suo bel libro uscito da Sellerio).

E se fu nel calcio che si afflosciarono le macerie della prima repubblica, proprio dal calcio sarebbe poi nata la seconda, quella di Berlusconi e di Forza Italia. Ma questa è un’altra disgrazia.