C’era una volta un Muro. Non di cemento, ma di carta. Non fatto di mattoni, ma di sentenze e decreti. Non divideva una città, ma famiglie, genitori e figli. Era il Muro delle Autorità di Protezione, dei Tribunali che decidevano il destino di chi aveva perso l’unità familiare. Da una parte c’erano i padri, dall’altra le madri. In mezzo, i bambini, costretti a vivere una separazione che andava oltre la distanza fisica. Il Muro si ergeva con decisioni unilaterali, affidi esclusivi, rapporti interrotti. Veniva chiamato protezione, ma in realtà era una prigione.
Alcuni genitori provavano a scalare il Muro, chiedendo equità, una genitorialità condivisa, un affido che non fosse solo una parola vuota. Ma le Autorità rispondevano con decreti implacabili: “Il miglior interesse del minore”. Così, l’affido condiviso diventava spesso un’illusione, una facciata dietro cui si nascondeva un solo genitore dominante, mentre l’altro restava un visitatore occasionale nella vita del figlio. I bambini soffrivano. Non capivano perché dovevano vivere da una sola parte del Muro, perché un genitore doveva diventare un’ombra. Erano loro le vere vittime, divisi da un confine imposto.
Poi, un giorno, il Muro iniziò a tremare. Le voci si fecero più forti, le richieste di equità si moltiplicarono. Il concetto di custodia condivisa emerse come una breccia nella barriera. Non più un solo lato, ma due. Non più genitori contrapposti, ma un equilibrio. E così, mattone dopo mattone, il Muro iniziò a crollare. Perché nessuna autorità può resistere alla verità di un bambino che chiede solo di amare e di essere amato da entrambi i suoi genitori.