È ben noto che a livello di dibattito politico parlare di promozione culturale è più o meno come pescare la Peppa Tencia. Certo, sulla carta, tutti paiono sensibili ma poi, inevitabilmente e inesorabilmente, prevalgono le ragioni economiche, costi o investimenti per la “creatività” che mai come in questi tempi difficili portano a tagliare il più possibile dentro un ambito, culturale appunto, considerato d’élite, magari pure “parassitario”, per usare un termine in voga oltreoceano. A livello nazionale la nuova legge sulla cultura propone più “sacrifici” che novità: istituzioni come Pro Helvetia, nata nel 1939 per difendere e sostenere la cultura svizzera, taglia fondi (alla produzione, alla ricerca) e toglie o riduce le proprie sedi “antenna” (si veda il recente caso di Venezia). Anche a livello mediatico la cultura è spesso relegata a un ruolo marginale, se non addirittura tolta di mezzo, magari dopo che megafoni domenicali hanno pensato bene di chiamarla con la kappa, non senza un certo malcelato disprezzo.
Ciò non toglie che quando la cultura diventa palesemente fonte di qualche beneficio economico, ah ecco, allora sì che si può entrare in materia. Istituzioni come il Film Festival di Locarno o sedi come il Lac di Lugano sono lì a sciorinare, annualmente, consuntivi in cui si mette in evidenza quanto indotto abbiano prodotto. Se la cultura (poco importa di quale qualità) attira pubblico che spende in alberghi e ristoranti, beh a quel punto può anche avere legittima cittadinanza nei preventivi nazionali, cantonali, comunali. Recentemente, in proposito, si è chiusa una prima fase di un concorso indetto dall’Associazione ‘Capitale Culturale Svizzera’, sorta 12 anni fa in Romandia, che intende promuovere, appunto, l’iniziativa di eleggere ogni tre anni una delle 173 città svizzere (con più di 20mila abitanti) a “capitale nazionale” in ambito culturale. Per il 2027, come progetto pilota, sarà La Chaux-de-Fonds a inaugurare quella che l’associazione si augura possa essere un’opportunità per i centri più diversi delle quattro regioni linguistiche nazionali di promuovere la ricchezza culturale del nostro Paese. Il tutto all’insegna della coesione, ovvero della mobilità di potenziali spettatori provenienti dai quattro angoli del Paese disposti a rincorrere imperdibili “eventi” organizzati per l’occasione. Le città candidate per il 2030 sono sei: Aarau, Thun, Sciaffusa, Zugo, Bellinzona e Lugano.
Non sfuggirà, a prima vista, che il Ticino si presenta con due candidature; insomma con un ennesimo derby, manco fossimo a Cornaredo (dei tempi andati) o alla Gottardo Arena. Di recente abbiamo appreso che Lugano si è annunciata dopo accordi preliminari con Locarno e Mendrisio, mentre Bellinzona ha inoltrato da sola la propria candidatura. Lugano versus Bellinzona, dunque, in nome della cultura, per un budget di una ventina di milioni in parte coperti da ente pubblico e da privati, ma con prospettive di entrate ben superiori e di un adeguato ritorno d’immagine. E mentre Roberto Badaracco (invero un po’ in extremis) afferma che Lugano si duole per questo derby al punto da proporre un’ estensione del proprio progetto anche a Bellinzona, il sindaco della capitale Mario Branda pare confermare senza problemi che dei progetti altrui non si occupa, lui guarda al suo. Quel che conta, per Branda, è che su Bellinzona possano accendersi i fari dell’interesse nazionale per il suo storico patrimonio culturale, all’insegna “dei confini e degli sconfinamenti” evocati dalla sua iconica murata.
Così, in nome di un ambito che per definizione dovrebbe implicare creatività, apertura verso l’altro e il nuovo, sembra che ancora siamo alla prevalenza dei confini, al Ticino del campanile, alla esplicita incapacità di concepire, anche culturalmente, che esisterebbe una “città Cantone” con tutte le carte in regola per presentare un progetto sudalpino e italofono di valenza nazionale condiviso fra i centri. Macché, ci troviamo anche qui davanti a un ennesimo esempio (che avrà, come al solito, il suo seguito di equivoci, malintesi e spiegazioni) di un’idea di cultura amministrata e burocratizzata dalla politica, dove fa addirittura comodo, come è il caso di Lugano, poter affermare che la città è un “polo” anche per la cultura indipendente. Ma da quando? Forse lo sarà nel 2030, ma nel frattempo si guardi magari a La Chaux-de-Fonds dove fra due anni, come da programma, verrà realizzato un progetto di riqualifica dei macelli cittadini, trasformati in centri di creazione artistica. Ma tu pensa cosa fa la cultura: lì, gli “abattoirs” non li abbattono. Abbattono semmai i confini della spicciola politichetta municipalistica.