In un angolo remoto della coscienza europea c’è un libro che non cessa di emettere una lucina sinistra: è il Mein Kampf, la mia battaglia, l’opera maledetta di Adolf Hitler. La prima parte uscì cento anni fa, nel luglio del 1925; la seconda nel dicembre del 1926: due tomi pensati e scritti nella fortezza-prigione di Landsberg am Lech, dove Hitler era stato rinchiuso per aver ordito un colpo di stato a Monaco di Baviera nel novembre del 1923. Condannato a cinque anni, ne scontò poco più di uno, in una condizione che gli storici definiscono “confortevole” (poté infatti contare sulla benevolenza della direzione del carcere).
Il primo tomo era largamente autobiografico: l’autore ripercorreva le diverse tappe della sua vita, dall’infanzia in terra austriaca (era nato a Braunau sull’Inn nel 1889) alle sue ambizioni, rimaste sulla carta, di diventare un artista o un architetto, e dal suo disprezzo per l’impero austro-ungarico alla decisione di arruolarsi nell’esercito del Kaiser Guglielmo II durante la grande guerra del 14-18. Nel secondo tomo gettava invece le basi del suo credo, il progetto nazional-socialista, imperniato sulla superiorità razziale della stirpe germanica.
Il testo, più volte rimaneggiato perché farraginoso e prolisso, di fatto illeggibile, non conobbe agli inizi un’ampia diffusione. Ma poi, con il progressivo acuirsi della crisi politica, economica e monetaria della Repubblica di Weimar, le tesi espresse nel libro divennero parole d’ordine di un’onda destinata a ingrossarsi anno dopo anno, fino a trasformarsi in una mareggiata inarrestabile. Dopo l’ascesa al potere del Führer nel gennaio del 1933, il Mein Kampf fu elevato dalla propaganda a ‘Bibbia del nazionalsocialismo’, distribuita in centinaia di migliaia di copie nelle scuole e nelle famiglie tedesche. Si è calcolato che le copie stampate tra il 1925 e il 1945 raggiunsero la cifra di dodici milioni, con traduzioni in diciassette lingue.
Due i nemici da combattere e da distruggere. Il primo esterno, ovvero le potenze che avevano umiliato la Germania con il trattato di Versailles, in primis l’odiata Francia. L’armistizio concluso nel novembre del 1918 fu fonte di una prolungata disperazione, “non avevo pianto nemmeno quando m’ero tenuto certo di restare cieco, dopo che i gas britannici m’avevano bruciati gli occhi; perché, allora, si trattava soltanto di me. Ma ora si trattava della Germania! E piansi, piansi, sulle sventure della patria”.
Il secondo nemico era interno: i disfattisti, i politicanti di Berlino, la socialdemocrazia retta dai marxisti, il parlamentarismo corrotto e corruttore. E da ultimo l’ebreo, la figura nefasta da estirpare; l’ebreo eterno che, infiltrandosi nei partiti, nei giornali e nell’amministrazione, aveva condotto il Reich sull’orlo del baratro. Il marxismo altro non era che la maschera dell’ebreo che, dietro le quinte, architettava complotti per annientare la razza ariana. Contro gli ebrei e i marxisti non era possibile nessun compromesso: “O sterminarli, o esserne sterminati”.
Alla lotta contro il giudaismo doveva seguire tutta una serie di provvedimenti volti a fare di nuovo grande la Germania. Occorreva innanzitutto ricondurre nel grembo teutonico le varie comunità che ancora non si erano ricongiunte con la madrepatria. Un’operazione necessaria, piattaforma da cui avviare la conquista di nuove terre, così da estendere lo spazio vitale (Lebensraum) verso Est, verso la Russia dalle sconfinate pianure. All’interno bisognava poi riformare il sistema scolastico, promuovere l’educazione fisica dei giovani nel quadro di apposite cellule militarmente disciplinate, soffocare con la violenza ogni forma di dissenso, addomesticare la stampa, istituire il partito unico. Le opposizioni avrebbero dovuto, o abbracciare la nuova fede, oppure finire nei campi di concentramento. Tutto questo in una logica di rigenerazione del sangue tedesco: sangue che purtroppo era rimasto contaminato dagli incroci e dai matrimoni misti con le razze inferiori. Uno dei compiti da perseguire consisteva nell’introdurre l’eugenetica, per fare in modo che gli individui minati nel fisico e nella mente non potessero più procreare: “Se da seicento anni gli individui degenerati fisicamente o sofferenti di malattie mentali fossero messi nell’impossibilità di generare, l’umanità godrebbe di una salute di cui oggi difficilmente ci possiamo fare un’idea”. Il paragone con il mondo animale è costante: solo l’esemplare più vigoroso e vitale s’impone, gli altri sono destinati a soccombere o a obbedire al capobranco: “Il ruolo del più forte è di dominare e non di fondersi con il più debole, sacrificando così la propria grandezza”.
Al termine della guerra, nel maggio del 1945, le forze alleate misero fuori legge il Mein Kampf, impedendone ogni ristampa o riproduzione. Questo divieto è rimasto in vigore per settant’anni, quindi fino al 2015. A partire da quell’anno ogni restrizione è caduta, permettendo agli editori di riproporre l’opera liberamente. La scadenza dei diritti d’autore ha naturalmente ridestato dubbi e timori. Si temeva che il ritorno di quest’opera incendiaria avrebbe ridato fiato al neonazismo e alimentato nuove ondate di antisemitismo. Per rispondere a queste paure, l’Institut für Zeitgeschichte di Monaco ha predisposto un’edizione critica in due grossi volumi di complessive… duemila pagine, accompagnando il testo originale con un minuzioso commento, paragrafo dopo paragrafo: un lavoro encomiabile che nonostante la mole è stato ben accolto dal pubblico non specialista.
In realtà il Mein Kampf ha sempre avuto edizioni pirata, e comunque negli ultimi decenni era facilmente reperibile in rete. È un libro maledetto, ma certamente inaggirabile per comprendere origini, sviluppo e crimini dell’ideologia nazista; e per risalire alle radici di un fenomeno nato nel cuore della cultura occidentale del Novecento, gemello-antagonista dello stalinismo.
Nel mercato italiano, il Mein Kampf, intitolato La mia battaglia, non è mai uscito dalla circolazione (la versione più nota e attendibile è quella curata da Giorgio Galli per le edizioni Kaos). La prima traduzione, parziale, fu pubblicata dall’editore Bompiani nel marzo del 1934. Sorprendenti quanto inquietanti le righe conclusive della prefazione redatta per l’occasione: “Il Fascismo e il Nazional-socialismo, intimamente connessi nel loro fondamentale atteggiamento verso la concezione del mondo, hanno la missione di segnare nuove vie a una feconda collaborazione internazionale. Comprenderli nel loro senso più profondo, nella loro essenza, significa rendere servigio alla pace del mondo e quindi al benessere dei popoli”. Firmato: Adolf Hitler, Berlino, 2 Marzo 1934.