I mercati finanziari, depositari delle aspettative razionali degli attori economici, celebrati da fior di economisti e premi Nobel, sembrano aver smarrito la loro presunta capacità di previsione di fronte al caos generato dalla nuova amministrazione Trump. Di fronte al dilemma fra politiche dei dazi, annunciati, ritirati, reiterati, che portano inevitabilmente all’aumento dell’inflazione e al rafforzamento del dollaro – perché se le merci importate costano di più, la domanda di dollari, e dunque il loro valore, aumenta –, di fronte ai licenziamenti di massa nel settore pubblico e alle deportazioni dei migranti indesiderati, che non potranno che incidere negativamente sulla domanda aggregata di beni e servizi, di fronte, insomma, alla prospettiva di una recessione, gli operatori finanziari sembrano davvero dei pugili suonati.
Si aspettavano ben altro, in effetti, una nuova età dell’oro, un’era di prosperità per tutti, fatta di aumento del potere di acquisto, di esportazioni e di investimenti produttivi. Invece, da più parti si parla con sempre più insistenza del rischio reale di recessione, peraltro confermato candidamente dallo stesso Trump, con effetti immediati sugli indici borsistici.
La politica della nuova amministrazione Trump sembra invero caotica e improvvisata, come traspare dalle reazioni dei mercati finanziari. Ma dietro questo apparente disordine si intravede, invece, una precisa strategia, una strategia ispirata alla “dottrina dello shock”, efficacemente descritta da Naomi Klein nel suo libro ‘Shock Politics’ del 2017. Ossia, la strategia di utilizzare il disorientamento dell’opinione pubblica dopo un trauma collettivo, per far passare misure radicali a favore del potere costituito. Lo shock “deve essere qualcosa di brutto e grosso che ancora non comprendiamo. Lo stato di shock subentra quando si spalanca un baratro tra i fatti e la nostra capacità iniziale di spiegarli”. Che cosa non comprendiamo? Che Trump vuole, appunto, provocare una recessione.
“Lo scopo di Trump sarebbe provocare un rallentamento della crescita, e di conseguenza la disinflazione. Così la Federal Reserve si sentirebbe libera, o meglio obbligata, a tagliare i tassi, favorendo la svalutazione del dollaro”. Così Paolo Mastrolilli su ‘Affari & Finanza’ di lunedì 10 marzo 2025. E a ragion veduta: che senso ha attirare imprese negli Usa per poi lasciarle in balia di un dollaro forte che penalizza le esportazioni. La stessa crisi borsistica asseconda, paradossalmente, la strategia di Trump: farebbe abbassare i tassi d’interesse, contribuirebbe così all’indebolimento del dollaro e faciliterebbe l’industria esportatrice, contenendo allo stesso tempo, gli eccessi della finanziarizzazione. Come ben sintetizzato da Gillian Tett sul ‘Financial Times’ dell’8/9 marzo 2025, Trump punta alla reindustrializzazione, più che alla finanziarizzazione degli Usa: “It’s about Main Street, not Wall Street”.
Puntare allo “shock recessivo” per ottenere ciò che la politica dei dazi non permette di realizzare (abbassamento dei prezzi dei beni di consumo e abbassamento dei tassi d’interesse con conseguente svalutazione del dollaro), è il grande gioco della nuova amministrazione Trump. Ma è un gioco estremamente pericoloso. Non solo le grandi promesse elettorali verrebbero platealmente disattese, ma l’aumento della povertà e in generale il peggioramento delle condizioni di vita potrebbero provocare rivolte sociali tali da compromettere o minare le ambizioni del presidente unto dal Signore. Visto dall’esterno, questo scenario potrebbe pure essere auspicabile, vista l’apparente paralisi politica delle forze di opposizione. Ma in questo contesto è bene essere cauti. Una rivolta sociale causata da un disegno che risponde a una precisa strategia, rimanda a un altro livello della shock politics, quello dell’accelerazione autoritaria, di una instaurazione di uno Stato di eccezione, tale da eliminare del tutto il sistema di pesi e contrappesi che ancora dimostra di poter intralciare, anche se con sempre meno forza, il cambiamento di regime. Il regime di una “democrazia senza diritti” sul modello di Orbán, basato sul contrasto all’immigrazione, il tradizionalismo culturale, la restrizione dei diritti civili, lo strapotere dell’esecutivo e la persecuzione degli oppositori.
Il fatto che Trump intenda spostare 35mila uomini dell’esercito statunitense di stanza nel Vecchio continente, dalla Germania all’Ungheria, autorizza a pensare che la strategia autoritaria abbia una portata che va oltre i confini americani e che punta non alla distruzione dell’Europa, terra “rara” da ricolonizzare, ma alla sua fascistizzazione. Un’Europa che a questo punto non avrebbe neanche più ragione di armarsi per difendersi dai “nuovi amici”. Ma questa è un’altra storia, un altro shock.