Quella tragica fotografia che mostra centinaia di migliaia di palestinesi di Gaza risalire la Striscia da sud a nord provoca un’immensa tristezza: una marcia fra le macerie verso le macerie delle proprie abitazioni.
La distruzione provocata da 15 mesi di bombardamenti non è un effetto collaterale di una guerra difensiva. Non c’erano aerei, carri armati, postazioni d’artiglieria e di missili da distruggere; solo qualche ridicolo lanciarazzi artigianale e abitazioni, ospedali, scuole, moschee, chiese, acquedotti. Lo scopo della distruzione appare oggi chiaro. Non solo una vendetta, non la prevenzione di altri “7 ottobre”, non per “distruggere Hamas” bensì per rendere Gaza invivibile e forzare la partenza dei suoi due milioni di abitanti. Un obiettivo comunicato ora al mondo da Trump con cinismo volgare: “Faremo di Gaza la Riviera del Medio Oriente”. Le reazioni politiche sono state sconfortanti. “I palestinesi devono rimanere a Gaza!” strillano l’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) incapace di proteggere il suo popolo, i Paesi arabi che non hanno mosso un dito contro i bombardamenti, gli Stati europei e i democratici americani campioni di ipocrisia. È una condanna all’inferno. Sopravvivere dieci o più anni in prefabbricati sgomberando le macerie per una vita indegna anche dopo: prigionieri di Israele, che sigilla la Striscia su due lati terrestri e uno marittimo (blocco navale), e ottiene dall’Egitto che anche il quarto sia invalicabile.
Nel frattempo, lo spazio vitale dei circa 3 milioni di palestinesi di Cisgiordania, dove già risiedono illegalmente 700’000 coloni, si restringe ogni giorno. I palestinesi vi sono molestati da coloni e militari affinché partano. L’orizzonte sembra segnato, come a Gaza: l’annessione a Israele, solo Stato “dal fiume al mare”, a meno di una reazione molto forte dei palestinesi stessi e degli israeliani che li sostengono, dell’Anp e dei Paesi arabi, della comunità internazionale. Una reazione che non riproponga la “soluzione a due Stati” con quello palestinese formato da due aree discontinue e scollegate: i 365 km2 di macerie (Gaza) e i 5’900 km2 ingestibili perché smembrati da 300 colonie ebraiche fortificate (Cisgiordania).
La provocazione di Trump potrebbe ora rappresentare per l’Anp e la comunità internazionale lo stimolo per uscire dal torpore e avanzare una soluzione razionale e praticabile per lo Stato Palestinese (Sp). Avete voluto spianare Gaza? Prendetela e offritela ai coloni che hanno rubato le terre palestinesi della Cisgiordania! Volete sgomberare 2 milioni di gazawi (in maggioranza rifugiati del ’48 e del ’67)? Fate pure, ma per ricollocarli esigiamo lo scambio di Gaza con tutta o parte della Galilea (oggi “Distretto Settentrionale”): 3’300 km2 (senza il Lago di Tiberiade), 1,1 milioni di abitanti per quasi metà arabi. A sud della Galilea si trova la Cisgiordania, a ovest il mare mediterraneo e Haifa, a nord il Libano, a est le “Alture del Golan” occupate che vanno restituite alla Siria o aggregate con il suo consenso all'Sp. Non è una visione peregrina: il Piano votato dalle Nazioni Unite nel 1947 assegnava gran parte della Galilea ai palestinesi, compresa la capitale Nazareth e le città marittime di Acri e Nahariya. All’epoca gli arabi non hanno accettato quella soluzione? Altri tempi, ma Israele ricordi che è stato riconosciuto perché ha accettato quella partizione, anche se poi già nel 1948 si è appropriato dell’intera Galilea. I vantaggi dello scambio Gaza-Galilea sarebbero molti per l'Sp, ma anche per Israele: continuità territoriale con la Cisgiordania; forte concentrazione degli arabi di Israele in Galilea; Sp come cuscinetto fra Israele, Siria (Golan) e Libano; Gaza ritorna a Israele senza la “ingombrante” presenza di 2 milioni di palestinesi.
Con una soluzione di questo tipo, la “soluzione a due Stati” avrebbe ancora senso: con i due Paesi coordinati da una “Confederazione israelo-palestinese” (tema sviluppato in “Foreign Affairs” 19.9.24) e con la possibilità, a lungo termine, d’integrare i due Stati in una Palestina democratica e binazionale.