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Il cretinismo delle merci

(Depositphotos)

Il 1° febbraio sarebbero dovuti entrare in vigore i dazi sui prodotti che Messico e Canada esportano negli Stati Uniti, ma Trump li ha sospesi. Una mossa inattesa, considerando la sua retorica populista e protezionista, che però ha evitato temporaneamente, forse fino alla fine di febbraio, un’impennata dei prezzi su beni di largo consumo, in particolare uno dei prodotti simbolo delle esportazioni messicane, l’avocado. È noto che durante il Super Bowl, la finale del campionato di football americano, il più importante evento sportivo dell’anno, il consumo di avocado raggiunge il suo massimo: milioni di chili vengono trasformati in guacamole, presenza immancabile sulle tavole statunitensi. Nel 2023, le esportazioni messicane di avocado sono state pari a 1,4 milioni di tonnellate. Gli Stati Uniti restano il principale mercato per l’avocado messicano, assorbendo l’81% dell’export, per un valore di 2,7 miliardi di dollari. Se i dazi fossero entrati in vigore, il prezzo degli avocado avrebbe subìto un forte aumento, rendendo il guacamole un lusso anziché un alimento di consumo popolare, svelando così ai cittadini americani cosa si devono aspettare dalle politiche protezionistiche.

Le politiche di Trump sono finalizzate a proteggere l’industria agricola statunitense e ridurre il deficit commerciale. Ma il Messico ha un vantaggio comparato nella produzione di avocado grazie al clima favorevole e ai costi di produzione più bassi. Produrre avocado negli Stati Uniti su larga scala sarebbe economicamente meno conveniente, a maggior ragione quando si vogliono deportare milioni di immigrati, molti dei quali impiegati nell’agricoltura, e comunque non basterebbe a soddisfare la domanda interna.

Dal Super Bowl al nazionalismo imperialista

Il grande evento sportivo del Super Bowl diventa allora una lente per osservare l’economia globale nell’era delle politiche tariffarie e del nazionalismo imperialista, ridefinendo il commercio internazionale quale terreno di gioco tra opportunismo economico, strategie politiche e volontà di deregolamentazione.

Questo esempio dimostra uno dei paradossi del protezionismo trumpiano: mentre mira a difendere e rilanciare la produzione e l’occupazione interna, rischia di penalizzare l’economia nel suo complesso, nel caso specifico sia l’economia americana sia l’economia messicana. Giustamente, il Wall Street Journal, in un suo recente editoriale, ha definito le tariffe di Trump “la più stupida Guerra commerciale della storia”. Ma il discorso va ben oltre l’avocado, e coinvolge beni considerati strategici dall’Amministrazione repubblicana per fare di nuovo grande l’America. Basti pensare alle nuove tecnologie e all’Intelligenza artificiale che definiscono i rapporti geopolitici tra Stati Uniti e Cina. L’uso delle tariffe come strumento ricattatorio non esclude che nei prossimi tempi si possa assistere a un aumento degli investimenti diretti negli Stati Uniti. Comunque, il problema degli sbocchi di mercato, della domanda necessaria per assorbire la produzione di beni e servizi, non viene per questo risolto, ma solo spostato. Non è possibile, infatti, smaltire qualsiasi produzione crescente senza garantire una crescita corrispondente della domanda aggregata, specie quando, come vogliono Trump e Musk e i loro epigoni nostrani, si vogliano ridurre massicciamente la spesa sociale e l’impiego pubblico.

Il declino sociale e morale degli Usa

Non c’è dubbio che questa svolta trumpiana abbia a che vedere con il declino economico in un contesto multipolare, un declino sociale e morale degli Stati Uniti come modello per le democrazie liberali, un declino reso palese dall’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Una crisi strutturale che solo in parte si invera nel duplice deficit, commerciale e pubblico, se è vero che il dollaro, che pure resta la valuta di riserva principale, ha comunque perso peso negli ultimi anni come strumento di pagamento nelle transazioni internazionali, minacciato com’è dalla ricerca di monete alternative per porre fine al suo “privilegio esorbitante”.

Con questa versione delle politiche tariffarie siamo nel pieno del “cretinismo delle merci”, l’illusione secondo cui un’economia possa essere rilanciata intervenendo artificialmente sulle sole ragioni di scambio dei beni importati/esportati. È un po’ come credere che il semplice abbassamento della franchigia Iva da 300 a 150 franchi, di fatto un dazio, possa salvare o addirittura rilanciare l’economia regionale in una situazione in cui colossi come Migros e Manor chiudono filiali e ridimensionano l’offerta e l’e-commerce continua a guadagnare terreno.

La risposta non sta nei dazi

La risposta ai problemi dell’economia nazionale non sta solo nei dazi né esclusivamente nelle misure protezionistiche, che peraltro sono in vigore già da tempo. Le politiche neo-mercantiliste si potrebbero tollerare, ma solo se fossero finalizzate al consolidamento dello Stato sociale e delle politiche redistributive a fronte di un inevitabile restringimento della domanda esterna. È utile ricordare che il grande storico dell’economia Karl Polanyi sottolineava che durante il periodo mercantilista inglese l’economia era subordinata a finalità sociali e politiche, prima che al profitto. Il cretinismo delle merci, che va di pari passo con il neoliberismo, segna indubbiamente il superamento della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, senza però annunciare un nuovo ordine economico e politico sovranazionale. Come scriveva Antonio Gramsci, “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.