laR+ L’OSPITE

Quattro mura e un calcio di pistola

Qualche riflessione a seguito di quanto accaduto alla Commercio di Bellinzona. E una poesia che va a toccare quei nervi scoperti spesso nascosti

(Ti-Press)

Sì, è vero, la pistola che il ragazzo quindicenne, di nazionalità svizzera, aveva con sé era una riproduzione. La docente non ha mai realmente rischiato di perdere la vita, così come nessuno dei presenti: studenti, professori, personale che lavora nella e per la scuola. Le uniche armi davvero pericolose che lunedì di settimana scorsa, intorno alle 11 e per una manciata d’ore, sono state brandite, sono quelle delle forze dell’ordine. Chiamati dalla direzione della scuola, i poliziotti hanno seguito un protocollo rigoroso, isolare la zona di rischio, mettere al sicuro le potenziali vittime di quello che, nelle menti di chi deve reagire prospettando la peggiore delle ipotesi, suonava come un possibile attentato. Poi, per la pace di tutti, la pistola è diventata un pistola, uno sciocco che ha messo in scena una bravata, ha infilato l’arma nei pantaloni e ha cercato di ottenere la promozione emulando forse uno dei Bravi ragazzi di Martin Scorsese, oppure un personaggio a caso dei mille cantanti da sobborgo che con ritmo cadenzato rappano il ribellismo. Ma per chi si è trovato coinvolto direttamente, e ha scoperto solo dopo la verità, quelle ore sono state vere. È stato vero per la docente, per la direzione, per chi è stato evacuato in fretta e furia, sospinto da grida concitate; è stato vero per il ragazzo, che probabilmente ha preso atto un poco alla volta del pandemonio che stava causando, è stato vero per i suoi compagni, che hanno subito tutto l’urto di chi è alla caccia di potenziali terroristi e non di un bullo di quindici anni. E infine è stato vero anche per chi la telefonata l’ha ricevuta, ha inviato i soccorsi, seguendo delle direttive che, immagino, sarà premura dei responsabili riconsiderare alla luce di quanto accaduto.

La corsa alla relativizzazione dei fatti, a cui si è assistito già da lunedì sera, è probabilmente un fenomeno sano e sensato; le stragi delle scuole americane sono una cosa lontana. Tuttavia non riesco a dimenticare l’emozione che ho sentito crescere dentro di me, lunedì scorso. Un’emozione che avevo tenuto a freno, sfoderando razionalità di fronte alle preoccupazioni degli studenti, nel tentativo di mitigare la potenza devastatrice dell’immaginazione, che si diverte in quei momenti a disegnare gli scenari più terribili. Vogliono il morto? mi sono detto associando quello che stava accadendo alle politiche economiche di questi ultimi tempi: i tagli nella scuola, certo, ma anche nel sociale, che colpiscono tutte le fasce deboli, per non parlare delle poche risorse che vengono investite per valorizzare la creatività del mondo giovanile, confluite simbolicamente nella distruzione di un pezzo del centro sociale autogestito di Lugano.

La difficoltà delle giovani generazioni è palpabile; lo vediamo in classe noi docenti, ne è precisa testimonianza la presenza degli sportelli di mediazione, così come il fitto ricorso al servizio medico-psicologico, ma anche il largo uso di farmaci che molti studenti non nascondono di assumere. Un ragazzo che impugna un’arma quasi vera per scongiurare una bocciatura, però, non fa riflettere solo sul disagio psichico, direi che mette l’accento anche sul ruolo della scuola, che è e resta quello di formare, educare alla cittadinanza, al pensiero critico, e ad affacciarsi in modo consapevole al mondo del lavoro. Il calcio della pistola mostrato alla professoressa, in questo senso, mi piace vederlo anche come la richiesta di una scuola migliore, che sappia interpretare con onestà i propri compiti e le proprie responsabilità, che sappia tenere vivo quel legame che unisce le generazioni, trasmettendo cultura, sapere, umanità. E che sappia dire di no a una società che non può nascondersi dietro un generico è compito della scuola, pur di non interrogarsi a sua volta.

Ma a dimostrarmi che in questa vicenda anch’io non ho il diritto di sentirmi immune dal dovere del dubbio, qualche sera fa ho trovato, nella mia casella di posta elettronica, un messaggio di un ex studente, che purtroppo non riesco a rintracciare. Si tratta di una poesia che muove dalle gesta quindicenni di lunedì scorso, ma che velocemente va a toccare, mi pare, quei nervi scoperti che troppo spesso è bello nascondere con il dito teso di chi seleziona.

Quattro mura

quelle quattro mura,
dove abbiamo imparato la grammatica
di quattro lingue diverse;

perché più è meglio

quelle quattro mura,
dove Luca fu scoperto a copiare,
e lo bocciarono con il due a tedesco;
quanto ci mancò;

ma ne perdemmo così tanti

quelle quattro mura,
dove Giulia ebbe un attacco di panico,
lasciò la stanza,
e non tornò più;

e non ce ne importò
perché non puoi essere debole;

quelle quattro mura,
dove incontrai il mio migliore amico,
che mi tenne la mano
per quattro lunghi anni
quando piangevo
e urlavo ‘io domani mi ammazzo’

avevo solo sedici anni,
ma non avevo tempo per la terapia;

quelle quattro mura,
dove oggi un ragazzo
ha tirato fuori una pistola
per rabbia,
che forse era paura,
che forse era tristezza,
che forse era angoscia,
di non avere un futuro.

E fuori,
oltre mille ragazzi
preoccupati per i voti;
perché a giugno
lo sai

nulla è cambiato
da quando eravamo noi lì
e nulla cambierà,
perché nulla cambia mai.
e fino a quando vivrò,
quando mi chiederanno
da dove vengo
risponderò che
da dove vengo io,
i giovani si ammazzano,
e gli adulti dicono loro
di non fare ritardo.

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