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Le domande giuste

(Ti-Press)

Chi volete che vi liberi, Barabba o Gesù detto il Cristo? È la domanda che Pilato pose alla folla e sappiamo come andò a finire. Un paio di millenni dopo l’influenza delle attese collettive sull’atto del giudicare resta un tema, eccome. Anzi, nelle moderne società della comunicazione, "infosfere" come le definisce uno studioso, lo diventa sempre più. È il tema che fa da sfondo a un bel libro di Vittorio Manes, ‘Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo’, pubblicato da poco dall’editore Il Mulino. Il titolo chiarisce le preoccupazioni dell’autore e il saggio, sapiente, ricco di riflessioni e riferimenti, aiuta a ragionare su una domanda centrale: come fare in modo che la pubblicità della giustizia non ne limiti l’indipendenza? Come equilibrare, anzi riequilibrare, la libertà di informazione e la libertà della giustizia? Come evitare che l’informazione giudiziaria diventi un "format" di intrattenimento che confonde fatti con emozioni, sospetti con verifiche, casi singoli con esempi rappresentativi, ruoli istituzionali con personaggi idealizzati? I temi sono noti: processi mediatici, trasformazione dei procedimenti in storie, indiscrezioni sistematiche, spettacolarizzazione e vittimizzazione, fenomeni antichi e i loro sviluppi recenti pensando a Facebook, blog, tweet e via narrando. Con il testo di Manes, dovrebbe confrontarsi chi condivide le preoccupazioni dell’autore, noto docente dell’università di Bologna e, non meno, chi la pensa in altro modo. Non basta richiamarsi alla pubblicità della giustizia o alla libertà dell’informazione senza bilanciarle con gli altri valori, diritti e interessi in gioco. Oppure affermare che il caso italiano è un’eccezione e che da noi, ci mancherebbe, non c’è motivo di preoccupazione. O, ancora, credere che la comunicazione influenzi tutto e tutti salvo chi è attivo nella giustizia. Lo scritto del professore bolognese espone anche piste definite "profilattiche", suggerimenti migliorativi e riparativi. Una è il richiamo alla presunzione di innocenza e alla sua doppia valenza di tutela tanto dei soggetti indagati quanto della serenità di chi indaga o giudica. Ricordare al pubblico che si tratta soltanto di accuse ma farlo nel contesto di narrazioni complessivamente colpevoliste o giustizialiste non basta. Quante volte si presenta qualcuno come reprobo aggiungendo però, prudenzialmente, che è ancora innocente o può fare ricorso? Se non viene sostanzialmente rispettata la presunzione di innocenza si riduce ad avvertenza rituale ed evitare che ciò accada è una responsabilità di chiunque comunichi, non solo dei media. Al capitolo "rimedi" Manes esplora piste interessanti, ad esempio possibilità di indennizzo, criteri di informazione delle istituzioni, tutela più efficace della personalità e responsabilizzazione in caso di divulgazione indebita di notizie. Come tutti i problemi all’intreccio di interessi divergenti anche quelli affrontati dal giurista bolognese non hanno confini nitidi o soluzioni facili. L’augurio è che il suo testo contribuisca, speriamo anche da noi, a far prendere la misura dei rischi e, in definitiva, alla responsabilizzazione dei molti attori coinvolti. È un invito rivolto a tutti ma in primo luogo a chi opera nell’ecosistema giudiziario, confidando che non sia già tardi e che si sbagliasse Shakespeare nello scrivere: "Con chi sta fermo il tempo? Con gli uomini di legge quando sono in ferie, perché essi dormono fra una sessione e l’altra, e non s’accorgono che il tempo si muove".

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