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Storia dei confini d’Europa da Stalin a Putin

La politica delle sfere di influenza inaugurata da Churchill e Stalin è oggi strumentalizzata dal Cremlino, in barba al diritto internazionale

(Keystone)

Winston Churchill, nelle sue memorie sulla Seconda guerra mondiale, ricorda il suo incontro con Stalin nel 1944. Al termine di una cena al Cremlino, Churchill propone di sistemare le «nostre faccende» nei Balcani, scrivendo su un foglietto le percentuali di spartizione delle sfere di influenza tra Urss e alleati occidentali. Stalin studia lo scritto e vi traccia un segno di visto. I due restano in silenzio, avvolti in una nuvola di fumo, osservando il brogliaccio al centro della tavola. Poi Churchill suggerisce di bruciarlo, chiedendosi se non siano stati troppo cinici a definire in questo modo i destini di milioni di persone. Stalin sorride e rifiuta, suggerendo invece di conservarlo a futura memoria.

Alle successive conferenze di Yalta e di Potsdam del brogliaccio non si fa più cenno, anche se gli Alleati non dimostrano maggiore attenzione all’autodeterminazione dei popoli con la decisione di amputare la Germania occupata, di accettare il possesso sovietico dei Paesi baltici, di traslare a ovest i confini della Polonia, causando il trasferimento di più di dieci milioni di persone.


(Wikimedia)

‘Come possiedi, così possederai’

La storia dell’Europa del secondo dopoguerra è il risultato di un’enorme migrazione forzata. Come scrive lo storico Tony Judt nel suo capolavoro Postwar, l’Europa liberata dai nazifascisti subisce tra il 1943 e il 1948 “un’immensa operazione di pulizia etnica e trasferimento di popolazioni”. Queste migrazioni forzate sono avallate dalle tre potenze vincitrici. Il risultato di questa immensa pulizia etnica fu, secondo Judt, “il riconoscimento de iure di una nuova realtà”. Dopo la Grande guerra si reinventano i confini, mentre i popoli sono in genere lasciati dove si trovano. Nel 1945 accade il contrario: le frontiere rimangono inalterate, mentre sono spostate le persone. Tra gli Alleati domina la convinzione che la Società delle Nazioni e le clausole sulle minoranze del Trattato di Versailles del 1919 si siano rivelate un fallimento: sarebbe dunque un errore cercare di resuscitarle.

A fondamento di questa impostazione riprende vigore il principio giuridico romano “uti possidetis, ita possideatis” (“come possiedi, così possederai”). Nel diritto internazionale l’uso, sancito in America Latina dove gli Stati di nuova indipendenza mantengono i confini delle vecchie colonie, trova legittimità nell’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite che decreta il dogma dell’integrità territoriale. Questo principio conservativo è mantenuto durante la decolonizzazione, la cui portata rivoluzionaria sull’ordine mondiale viene così circoscritta.

Guerra fredda e confini intoccabili

Durante la guerra fredda l’Urss si fa paladina dell’interpretazione conservativa dell’uti possidetis. Nel 1975, alla Conferenza per la cooperazione e la sicurezza europea, conclusa con l’approvazione dell’Atto unico di Helsinki, i sovietici difendono l’esplicito riferimento all’intangibilità delle frontiere; gli occidentali invocano l’autodeterminazione dei popoli e il rispetto dei diritti umani, rifacendosi all’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite. L’Urss teme che l’autodeterminazione metta in discussione la sua sovranità sui territori acquisiti dopo la guerra. Gli occidentali vogliono invece aprire un varco nella corazza comunista e indebolire la presa sovietica sul continente. Il risultato è un trattato in cui i due principi sono presenti su un piano di parità. Tutti sono coscienti che i due concetti sono potenzialmente incompatibili, ma il desiderio di stabilizzare la Guerra fredda con un accordo prevale su qualsiasi altra considerazione. La riunificazione della Germania nel 1990 rappresenta il simbolo di questo compromesso: è riconosciuta l’autodeterminazione del popolo tedesco, sancendo comunque l’intangibilità della Linea Oder-Neiße istituita a Potsdam.

Le secessioni delle Repubbliche sovietiche

Dal 1991 la disgregazione di strutture federali, come l’Urss, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia pone con drammatica urgenza la questione dei confini. Nella maggior parte dei casi, la logica che ha governato la nascita di nuovi Stati indipendenti è quella di ampliare l’uti possidetis, riconoscendo come beneficiari del diritto all’autodeterminazione anche le entità che costituiscono unità amministrative federali definite. Le frontiere possono risultare ‘nuove’ dal punto di vista del loro statuto politico, ma non del loro tracciato. Le secessioni interne all’Urss non assumono carattere internazionale, ma sono considerate di sola competenza dell’Unione Sovietica. Il riconoscimento da parte della comunità internazionale dei nuovi Stati avviene dopo quello della Russia e solo nei confini delle vecchie repubbliche sovietiche. Nessuno Stato dell’Onu accetta l’indipendenza del Nagorno Karabakh, regione autonoma interna alla Repubblica sovietica azera.

La disgregazione della Jugoslavia e il vulnus del Kosovo

La Jugoslavia conosce una serie di secessioni violente, perché – a differenza della Russia di Eltsin – la Federazione jugoslava di Milosevic non riconosce il diritto all’autodeterminazione delle repubbliche indipendentiste. Tale diritto non è applicato alle province: non ottengono il riconoscimento la Repubblica di Krajina in Croazia o la Repubblica serba di Bosnia. È in questo contesto che emerge la questione del Kosovo, regione autonoma all’interno della Serbia. Il dilemma si pone nel considerare o meno il confine tra Serbia e Kosovo come rientrante nel principio dell’uti possidetis. La questione non è di poco conto, dato che ha comportato un intervento militare della Nato in Serbia, avvenuto senza il consenso del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Esistono motivi giuridici per negare validità all’indipendenza kosovara, basati sul fatto che il principio di conversione automatica delle frontiere amministrative in confini statali non si applica alle regioni autonome. Si afferma però una visione contraria, derivante dall’Atto di Helsinki e dalla Convenzione di Vienna, che sottomette il principio dell’intangibilità delle frontiere al rispetto dei diritti umani, in quanto ius cogens, cioè norma perentoria a tutela di valori fondamentali: la difesa dei diritti umani primari della popolazione albanese, sottoposta altrimenti al rischio di un genocidio, legittima la trasformazione delle frontiere amministrative kosovare in frontiere statali.

Quel brogliaccio rimasto sul tavolo

Al suo interno la Federazione russa si è attenuta al principio dell’uti possidetis e all’intangibilità delle sue frontiere: nulla in termini di territorio e confini può essere ceduto, rivisto o modificato in modo significativo. Il governo ha così combattuto con violenza la separazione della Cecenia, senza nessun intervento internazionale, considerato il carattere sovrano del territorio russo. Nel 2020, la difesa dell’integrità territoriale è stata consolidata in una riforma costituzionale che sancisce la subordinazione del diritto internazionale, tra cui quello all’autodeterminazione dei popoli, al primato della Costituzione russa.

A livello di spazio post-sovietico, invece, la Russia ha progressivamente criticato i principi seguiti alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e, sebbene non lo abbia dichiarato in modo esplicito, ha agito come se essi non fossero più legalmente vincolanti. Nella prospettiva moscovita, la scelta bolscevica di dare un’impronta federale all’Urss avrebbe penalizzato in modo chiaro l’elemento russo. Le repubbliche sovietiche secessioniste avrebbero così acquisito territori che storicamente non spettavano loro, come ad esempio la Crimea, regalata da Kruscev all’Ucraina nel 1954. Mosca mira così ad aggiustare i confini – negando legittimità al principio dell’uti possidetis – per conformarsi a ciò che percepisce come giustizia storica e necessità geopolitica. Sfruttando le evidenti contraddizioni dell’Occidente, di cui è facile screditare il ruolo di fautore del diritto internazionale dopo l’inaccettabile scelta statunitense di invadere l’Iraq, la Russia ha proceduto con crescente e inquietante intensità a una politica regionale aggressiva: ha sostenuto i moti secessionisti della Transnistria in Moldavia, ha riconosciuto nel 2008 come Stati l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, regioni autonome della Repubblica georgiana, ha annesso nel 2014 la Repubblica autonoma di Crimea, ha riconosciuto il 21 febbraio 2022 la Repubblica popolare di Donetsk e la Repubblica popolare di Lugansk, sebbene queste ultime non occupassero neppure i confini delle loro province, e il 24 febbraio 2022 ha invaso lo Stato indipendente ucraino, che aveva riconosciuto in passato nella sua sovranità.

Rifiutando l’universalismo del diritto internazionale e respingendo con forza quegli aspetti che giudica «occidentali», soprattutto se enfatizzano la democrazia e i diritti umani, Mosca non esita dunque a sfruttare gli stessi principi – su tutti il precedente del Kosovo – per mostrare l’incoerenza dell’Occidente e riparare quelli che considera i torti subiti nello spazio post-sovietico, su cui conserverebbe – come scritto sul brogliaccio rimasto sul tavolo del Cremlino – la sua sfera d’influenza e il suo diritto di ingerenza.

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