Ce li si attendeva e sono arrivati in grande stile. Lo scorso 2 aprile il presidente americano Donald Trump ha mantenuto le promesse elettorali e introdotto dazi “reciproci” a partire dal 9 aprile. Anche il nostro paese è fortemente colpito.
Giorno della liberazione. Con questa retorica Trump ha indicato il giorno, nel quale avrebbe annunciato l’introduzione di dazi doganali per riparare – a suo dire – i torti che gli Stati Uniti subiscono da decenni nel commercio mondiale. Nelle scorse settimane l’amministrazione federale ha analizzato i flussi commerciali di beni con numerosi paesi, stilando la lista dei “dirty 15”, gli sporchi 15 paesi o entità che esportano negli States più di quello che importano. La Svizzera ne fa parte, siccome il deficit commerciale dal punto di vista americano è marcato. Dato che il nostro paese ha abolito nel 2024 completamente i dazi industriali mantenendo solo quelli a protezione del settore agricolo, è tra i maggiori investitori esterni negli Stati Uniti e per quanto riguarda i servizi ne importa più di quanti ne esporta, si pensava a un trattamento di riguardo.
Non è stato il caso: sulla base di calcoli astrusi le esportazioni svizzere sottostaranno addirittura a dazi del 31 per cento, nettamente superiori a quelli imposti ai paesi dell’Unione europea. Piccola nota positiva: i prodotti farmaceutici saranno esclusi da questi dazi, ma non è ancora chiaro se schiveranno anche i dazi globali all’importazione del 10 per cento. La situazione resta volatile e al momento sembra differente rispetto al passato, quando i dazi erano stati usati come strumento per mettere sotto pressione la controparte nelle negoziazioni. Il punto di non-ritorno è stato sorpassato e un completo dietrofront farebbe perdere la faccia al presidente americano. È dunque pensabile che la BNS provi a mantenere la competitività dell’export svizzero intervenendo sul valore del franco.