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Quando le parole diventano pericolose, il pensiero diventa resistenza

Tratto dal memoir di Azar Nafisi, è nelle sale ‘Leggere Lolita a Teheran’ di Eran Riklis, ribellione dai gesti minimi, senza facili colpi di scena

20 marzo 2025
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Se i libri fossero davvero così innocui e inutili, verrebbe da chiedersi perché tanta gente si dia un gran da fare per impedire che vengano letti. Apparentemente, non c’è niente di più pericoloso di un libro vietato. Non perché riveli chissà quali segreti inconfessabili, ma perché chi lo legge potrebbe trarre conclusioni pericolosamente personali. E si sa, nulla spaventa un regime quanto il libero arbitrio. Forse è proprio questa la ragione per cui, leggendo Nabokov di nascosto, un gruppo di studentesse iraniane finisce col far vacillare qualcosa che va ben oltre la loro personale adesione alla legge islamica.

È nelle sale ticinesi da oggi (Cinema Iride a Lugano, Rialto a Locarno, Multisala a Mendrisio e Cinema Forum a Bellinzona) l'adattamento cinematografico di ‘Leggere Lolita a Teheran’, diretto dal regista israeliano Eran Riklis e tratto dall’ormai celebre memoir di Azar Nafisi. Un film atteso, discusso ancor prima di essere visto, che indaga il potenziale della letteratura di diventare una piccola, ostinata crepa nel muro – che sia metafisico o di cemento – ricordando inevitabilmente l'opera di Jorge Méndez Blake, L’impatto di un libro, dove un testo di Kafka riesce, da solo, a deformare l’intera stabilità di un muro di mattoni. E così, Nabokov, Miller, Fitzgerald e Austen, letti clandestinamente in un salotto segreto di Teheran, finiscono col mettere in discussione l'autorità invisibile del regime che incombe sulle studentesse e sulla protagonista – nonché autrice reale – Azar Nafisi.

Azar (interpretata da Golshifteh Farahani) è una professoressa iraniana appena rientrata dagli Stati Uniti per insegnare nel proprio paese d'origine. A Teheran, nella capitale scossa dalla Rivoluzione Islamica, decide di sfidare le imposizioni del regime trasformando il proprio appartamento in un'aula clandestina, dove invita un gruppo selezionato di studentesse a leggere e discutere libri occidentali proibiti, nomi che la Rivoluzione Islamica considera corrotti, addirittura “osceni”. I romanzi, in quel salotto, diventano strumenti inaspettati per sabotare l’ordine imposto, si trasformano in ordigni metaforici capaci di incrinare le certezze interiori delle stesse giovani lettrici su cui hanno costruito la loro identità.

Riklis racconta questa storia con la cautela di chi cerca di dribblare ogni tentazione melodrammatica; forse persino troppa cautela, scegliendo di restare in una zona grigia narrativa, fin troppo analitica di fronte a momenti di struggimento puro, che avrebbero meritato più spazio. Appare così esitante di fronte ai temi più drammatici – le punizioni fisiche, la violenza repressiva, l’angoscia silenziosa della fuga – che si resta sospesi in una dimensione quasi didattica, forse per fedeltà al tono intellettuale e molto analitico del romanzo. Eppure, è proprio questo rigore intellettuale ad avere il merito di far emergere con chiarezza cosa significhi vivere in una realtà in cui la separazione tra pubblico e privato non esiste più. La stessa regia, con la sua compostezza, finisce per rispecchiare l’ambiente oppressivo in cui si muovono i personaggi: un mondo dove persino i ricordi personali più intimi devono essere sacrificati sull’altare della disciplina.

Una Teheran italiana

Girato in Italia, con Roma camuffata da Teheran, il film si muove con un’ambiguità che sembra più strategia che indecisione. Qui il messaggio non è confezionato con il fiocco della morale univoca, ma lasciato decantare tra i dettagli che lo spettatore deve decifrare. E proprio perché non impone una lettura politica netta, è inevitabile che sorga il dubbio se una co-produzione italo-israeliana, pur con un cast iraniano, possa davvero raccontare questa storia senza filtrarla attraverso un certo sguardo occidentale. Riklis evita le trappole retoriche più ovvie, ma il dubbio resta sospeso, spingendoci non solo a riflettere sull’Iran, ma anche su come noi occidentali osserviamo, narriamo e, a volte, proiettiamo sugli ‘altri’ ciò che vogliamo vedere.

Sarebbe limitante definire ‘Leggere Lolita a Teheran’ un film sulla censura: è una storia sulla resistenza interiore e sulla memoria – o, forse, proprio sulla sua assenza. Più sofisticato che emozionante, decisamente più cerebrale che viscerale, non cerca facili colpi di scena ma costruisce un ritratto di ribellione fatta di gesti minimi, di pagine sfogliate di nascosto, di idee che, una volta lette, non possono più essere dimenticate.