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Le allegre comari della Pianura Padana

Torna in scena al Teatro alla Scala lo storico ‘Falstaff’ di Verdi con la regia di Giorgio Strehler

Il ‘Falstaff’ di Strehler inaugurò la stagione 1980/81 ed è tornato alla Scala fino al 7 febbraio
(Brescia e Amisano)
19 gennaio 2025
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Quante volte, riflettendo su un evento teatrale memorabile, lontano nel tempo e nello spazio, abbiamo pensato “avrei voluto esserci!”. È una tendenza che si va consolidando nei teatri lirici, specialmente se hanno alle spalle una storia lunga e gloriosa, quella di riproporre allestimenti di qualità anche a distanza di anni, permettendo così a un nuovo pubblico di assistere a spettacoli altrimenti inaccessibili. L’apripista è stata ‘La Bohème’ di Zeffirelli, nata nel 1963 al Teatro alla Scala che l’ha riproposta a più riprese, fino a quella recente del 2023. Il ‘Falstaff’ di Strehler inaugurò la stagione 1980/81, con Lorin Maazel sul podio, e fu poi ripreso più volte da Riccardo Muti, che lo consegna oggi a Daniele Gatti, dopo averlo lo stesso Gatti diretto alla Scala una decina d’anni fa con la regia di Robert Carsen e lungo la sua carriera in svariate città del mondo, tra cui Dresda e Zurigo, con diversi allestimenti. ‘Falstaff’ è l’ultima opera di Verdi e fin dal debutto, nel 1893, sotto la bacchetta di Toscanini, ha diviso il pubblico tra chi lo ascolta e lo guarda storcendo la bocca perché ritiene non abbia nulla di verdiano, e chi invece lo considera quasi l’unica opera apprezzabile nell’intero repertorio dell’allora ottantenne compositore, proprio per il suo carattere innovativo.

Verdi con ‘Falstaff’ affronta per la seconda volta con grande impegno un soggetto comico (la prima era stata in gioventù con ‘Un giorno di regno’, fiasco totale ritirato dopo il debutto) e si allontana dallo schema classico dell’opera italiana fatta di numeri chiusi, offrendo in sostanza la sua personale risposta alla rivoluzione wagneriana che aveva scosso il mondo musicale. Gli fornisce contributo imprescindibile il raffinato e riuscitissimo libretto di Arrigo Boito, che forte della tradizione letteraria italiana, mescola felicemente un parlato denso di citazioni dantesche e boccaccesche con modi e lingua popolareggianti. Ma di che si tratta? Sono ‘Le allegre comari di Windsor’, “una commedia francamente noiosa. Dobbiamo essere grati a Shakespeare per averla scritta, poiché ha fornito lo spunto per ‘Falstaff’ di Verdi, un eccelso capolavoro operistico”. Così scrive W.H. Auden nelle sue ‘Lezioni su Shakespeare’. E conclude: “Non avendo nulla da dire su quest’opera shakespeariana, propongo di ascoltare Verdi”.

Tutto nel mondo è burla

Questo ‘Falstaff’ scaligero deve la sua giusta fama a una geniale intuizione di Strehler, ossia il trasferimento della vicenda comica da Windsor alla Pianura Padana, alla vivace ed essenziale Lombardia ottocentesca di Verdi e Boito: lontano dai fasti milanesi rumorosi e incalzanti, ecco apparire una campagna pigra e assolata, con casolari dalle mura alte, covoni di fieno, una cantina ben fornita di botti di vino al posto dell’Osteria della Giarrettiera prevista dal libretto, un gioco sapiente di luci e ombre, l’abbagliante prospettiva individuata da Ezio Frigerio – artefice di scene e costumi – nello spettacolare secondo quadro del primo atto, un terzo atto con un ultimo quadro immerso nell’azzurro della notte, in cui ritroviamo atmosfere shakespeariane da ‘Sogno di una notte di mezza estate’, dove Falstaff è un Bottom rapidamente beffato e beffeggiatore.

In scena le quattro allegre comari paiono uscite da un campiello veneziano o da una baruffa chiozzotta, mantenendo il riferimento all’Inghilterra elisabettiana nei costumi dai tenui colori ma soprattutto nei pantaloni e maniche sbuffanti e negli alti estrosi cappelli dei personaggi maschili. L’allestimento e la regia di Strehler (ripresa da Marina Bianchi) resistono al tempo sia perché restano autenticamente vivi, sia perché indicano oggi nostalgicamente una bellezza irrecuperabile, un tempo che non è più, quello del “teatro che può cambiare il mondo”, ricomponendone in qualche modo le asprezze e gli orrori nel nome della poesia e dell’arte, e che era proprio della visione di Giorgio Strehler, sempre attento al volgere dei tempi e mai disimpegnato. D’altra parte malinconia e nostalgia sono intrinseche alla vicenda di Falstaff e il caldo sole che ammanta il primo e il secondo atto dell’opera diventa crepuscolare nel terzo fino a cedere il posto alla notte. La riconciliazione con il mondo avviene attraverso la consapevolezza che “tutto nel mondo è burla”, con un finale assai efficace che abbraccia interpreti e pubblico e riconquista lo spirito comico amarognolo della vicenda.

Un cast bene assortito

Nei panni di Falstaff c’è un veterano, Ambrogio Maestri, che debuttò il ruolo in una precedente ripresa di questo allestimento, nel 2001, e che oggi mostra una certa stanchezza nei gesti e nella voce, lontana dallo smalto e dal volume necessari. Gli è a fianco il gelosissimo e ben delineato Ford di Luca Micheletti, caso unico di interprete che ama dividersi tra lirica e prosa, mentre Alice è Rosa Feola, deliziosa nel fraseggio e brillante negli acuti. Un cast bene assortito, con voci equilibrate ma poco voluminose che talvolta l’orchestra sovrasta.

A dirigere orchestra e coro (il cui Maestro è Alberto Malazzi) del Teatro alla Scala c’è il citato Daniele Gatti, che con ‘Falstaff’ ha un lungo rapporto di amore e frequentazione (nel 1980, studente di Conservatorio, era in loggione ad assistere allo spettacolo, messo in scena dallo stesso Strehler) e che dalla partitura riesce a trarre un intenso anticipo di Novecento, sottolineandone i contrasti, da una parte valorizzando le deflagranti esplosioni dei fiati, veri e propri scoppi di ironia bonaria e un po’ circense ad accompagnare le avventure del vecchio seduttore, dall’altra sviluppando la delicata tessitura musicale del bosco delle fate nel terzo atto con la sua magia notturna. Applausi alla fine per tutti con qualche isolato “buuu”.

‘Falstaff’ è in scena al Teatro alla Scala fino al 7 febbraio.