laR+ La recensione

Un’estate a ‘Saltburn’

Dalla regista premio Oscar Emerald Fennell uno strano film di Natale, non per famiglie e senza nessun buon sentimento. Su Amazon Prime Video

Barry Keoghan è Oliver. Candidato agli Oscar per ‘Gli spiriti dell’isola’, sarà il Joker nel sequel di ‘The Batman’
(Keystone)
30 dicembre 2023
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‘Saltburn’ è ambientato nel 2006 tra Oxford e un castello nel Northamptonshire, dove un giovane arrampicatore dickensiano chiamato Oliver Quick viene invitato da un amico ricchissimo e affascinante, che ha pietà di lui, a passare l’estate. Oliver è uno studente borsista che sta cercando di farsi strada nell’accademia per lasciarsi alle spalle una brutta storia familiare, madre e padre alcolisti, dipendenti da chissà quali droghe. Felix, l’amico, lo prende sotto la propria ala perché in vita sua non ha mai conosciuto altro che il proprio privilegio e la propria popolarità, è come quei gatti di razza che hanno perso l’istinto e non percepiscono più il pericolo, neanche se gli punti contro un trapano acceso. Tra i due nasce un’amicizia al confine con l’amore, o quanto meno con la passione estiva, asimmetrica se non del tutto unilaterale, nonostante sia piuttosto chiaro che Oliver in realtà nasconde cattive intenzioni – certo, lo si capisce soprattutto dal casting, dal fatto cioè che a interpretarlo sia Barry Keoghan con la sua faccia al tempo stesso infantile, ottusa e minacciosa (una faccia che gli è valsa già una candidatura agli Oscar per ‘Gli spiriti dell’isola’ e con cui interpreterà il Joker nel sequel di ‘The Batman’).

In famiglia

‘Saltburn’ (disponibile da qualche settimana su Amazon Prime Video) è per metà la versione inglese di ‘Call me by your name’ e per metà una specie di ‘Talento di Mr. Ripley’ meno sottile e più grottesco. Anche solo per il tempismo con cui è uscito, è diventato uno strano film di Natale senza nessun buon sentimento. Se qualcuno ha avuto la malaugurata idea di guardarlo in famiglia durante le feste deve essersi pentito in fretta, anche grazie a scene volutamente provocatorie, tipo quella in cui Oliver si china all’interno della vasca in cui Felix (Jacob Elordi, il bello di ‘Euphoria’) si è appena masturbato, per leccare lo scarico.

Il racconto della loro amicizia omoerotica finisce in secondo piano quando Felix invita Oliver a Saltburn – che è anche il nome della villa di famiglia – e lo trascina nel suo mondo fatto di camerieri in livrea, cene in smoking, feste a tema con duecento persone e pomeriggi lunghissimi a bordo piscina, e gli presenta tutta la sua famiglia: il padre buffo e antiquato, la madre glaciale (Rosamund Pike), la sorella svampita e disponibile, il cugino scroccone geloso – l’unico personaggio non bianco del film. Si vede lontano un miglio che nessuno in quella famiglia è felice nonostante la scandalosa ricchezza nella quale vivono – la domanda che mi sono fatto per tutto il film è: chi vorrebbe davvero trascorrere più di un fine settimana con quella gente, in quel posto? – eppure Oliver sembra spinto da una forza irresistibile a restarci il più a lungo possibile.

Decadenza

Emerald Fennell, che ha scritto e diretto ‘Saltburn’, ha scelto di ricostruire i primi anni del Duemila fin nei minimi dettagli: i piercing sul sopracciglio, i jeans con la vita bassa, i braccialetti di plastica, l’horror The Ring, la musica dei Bloc Party, degli MGMT e dei Killers. Un modo per dare tridimensionalità ai suoi personaggi e calarli in un determinato contesto storico, che sembra coprire, però, con una spolverata di nostalgia – quelli sono anche gli anni della giovinezza di Fennell, e di tutti quelli che hanno quarant’anni oggi – il vuoto che hanno all’interno.

‘Saltburn’ condivide qualcosa dell’amore per la giovinezza e per la ricchezza dell’ultimo romanzo di Bret Easton Ellis, ‘Schegge’, ambientato però negli 80. Anche lì la colonna sonora e i dettagli d’epoca (le polo Ralph Lauren, le decapottabili) connotano i personaggi oltre che le atmosfere, ma in Ellis l’orrore e il senso di pericolo imminente pervadono ogni pagina e la nostalgia, si capisce subito, è un veleno tossico. Qui invece non sembra esserci traccia di autocritica. Il che, oltre che un difetto del film, potrebbe anche rappresentare un tratto significativo dell’epoca che descrive: così superficiale da non rendersi neanche conto della propria decadenza, da estetizzarla anzi sotto un finto distacco ironico (una buona definizione dei Duemila, in effetti).

Con chi dovremmo avercela?

Anche l’opera d’esordio di Fennell, ‘Una donna promettente’, che ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale ed era candidata anche come miglior film, miglior regia e miglior attrice (per Carey Mulligan, che compare anche in ‘Saltburn’ per qualche scena) mescolava commedia e thriller ed era volutamente provocatorio. In quel caso Fennell raccontava una storia di vendetta in salsa #metoo, con un messaggio femminista fin troppo letterale: la protagonista cacciava uno per uno stupratore e complici che hanno spinto al suicidio una sua cara amica. Ma il film proponeva come soluzione una specie di nuovo suicidio: l’unico modo per punire i colpevoli, per mettere il patriarcato di fronte alla propria stessa violenza, era il sacrificio della protagonista.

Non che Fennell debba per forza di cose proporre soluzioni costruttive, il problema di ‘Saltburn’ semmai è che non è chiaro neanche con chi ce l’abbia, quale sia il messaggio che strilla in faccia allo spettatore. Con chi dovremmo avercela, con la famiglia di Felix o con Oliver? Il film sembra una critica al materialismo anaffettivo e violento dell’1% più ricco del pianeta, ma finisce per contraddirsi da solo. Come ha notato Richard Brody, critico del New Yorker: “La fantasia che i privilegiati siano facili da imbrogliare ha un richiamo potente su di noi. Dipingendo i ricchi come il contrario dell’acume, ci rassicura del fatto che il lusso e il loro status siano probabilmente immeritati”.

Forse il paragone più pertinente per ‘Saltburn’ è con film come ‘Parasite’ o con la serie ‘Squid Game’, riflessioni sulla lotta di classe intesa come cinico e crudele tutti contro tutti, in cui ricchi e poveri condividono un materialismo di fondo che non lascia scampo. La cattiveria, in una visione del mondo del genere, è la sola qualità morale concessa a chi vuole sopravvivere. ‘Saltburn’ trasforma il conflitto di classe in pura e semplice invidia, e diventa un altro film di vendetta. Se però Carey Mulligan in ‘Una donna promettente’ se la prendeva con persone violente, o comunque attivamente complici di una violenza specifica, qui Barry Keoghan sembra un semplice psicopatico che mette nel mirino una famiglia di ricchi. Emerald Fennell prende troppo alla lettera il concetto di ingiustizia sociale, ne fa una cosa personale: la storia di un singolo individuo che vuole prendere il posto di chi lo guarda dall’alto in basso. In che modo le cose possono migliorare, una volta che ci è riuscito? Perché dovremmo avere a cuore quello che gli succede?

Attenzione: spoiler

‘Saltburn’ invece sembra chiederci di partecipare alla storia di successo di Oliver Quick, di condividere la sua esaltazione. Nell’ultimissima scena, di cui si è parlato molto, Barry Keoghan si lascia andare a un ballo dionisiaco sulle note di ‘Murder on the dance floor’, nelle stanze vuote della villa ormai vuota. Le stanze sono sempre bellissime e il corpo giovane e nudo di Keoghan corrisponde al canone contemporaneo di bellezza virile. Eppure non è difficile immaginare quello che viene dopo. Quanto costa mantenere un castello di quel genere? Quanto velocemente può svanire un’euforia di quel tipo?

Dopo i titoli di coda lo spettatore può fantasticare sulle scene mancanti: a Oliver non resterà che sopravvivere e invecchiare da solo, nel vuoto della villa che corrisponde al suo vuoto interiore, prima o poi raggiunto dai rimorsi e dalla sua stessa pazzia, mentre Saltburn cadrà a pezzi, diventerà una rovina infestata di rampicanti, dimora di qualche squatter finché un giorno, chissà, farà da rifugio a qualche uomo primitivo in un futuro post-apocalittico.

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