Spettacoli

Il sogno del cinema di Nobuhiko Obayashi

Il visionario regista giapponese è scomparso nei giorni scorsi. Il ricordo del critico Ugo Brusaporco

Nobuhiko Obayashi alla Berlinale nel 2005 (Keystone)
18 aprile 2020
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In questi giorni divisi tra le feste pasquali e i timori del nuovo corona virus è scomparso, dopo una lunga malattia, Nobuhiko Obayashi, visionario regista giapponese autore di film cult e mainstream. In una carriera iniziata negli anni Sessanta dello scorso secolo, e durata quasi sessant’anni, ha firmato 58 titoli tra film lunghi e cortometraggi e 3000 filmati pubblicitari per il cinema e la televisione.

Era nato a Onomichi, nella prefettura di Hiroshima, il 9 gennaio del 1938. Fu forse il periodo dell’infanzia vissuto con i nonni, mentre il padre medico era stato chiamato in guerra, a segnare il suo percorso non solo artistico ma soprattutto morale, la sua idea di un cinema che respirasse fino all’ultimo il suo spirito contro la guerra.
Se il successo lo raggiunge come regista nel 1977 con l’horror “House”, diventato subito cult, è negli anni precedenti che matura e affina il suo linguaggio come pioniere del cinema sperimentale giapponese. Apice della sua carriera, iniziata con lavori in 8 e 16 mm, è “Confession” un notevole film del 1968, esempio di cinema underground che con originalità rivisita alcuni dettati occidentali. Il film è oggi disponibile in internet, nella versione originale.

All'epoca Nobuhiko Obayashi aveva trent’anni, “Confession” è il preludio della sua carriera, ne contiene tutti i cromosomi e lo spettatore odierno può solo inchinarsi alla bellezza formale e alla poesia che più che trasparire invade il suo narrare. Nel 1961 intanto in Giappone era nato l’Art Theatre Guild (ATG), una compagnia di produzione che fu attiva fino a metà anni Ottanta e che realizzo insieme a quelli di Obayashi molti dei film della New Wave nipponica compreso quello di Shōhei Imamura “Evaporazione dell'uomo” (1967), quelli di Nagisa Oshima “Diary Of A Shinjuku Thief” (1968) e “Death by Hanging” (1968), e tra gli altri il capolavoro di Toshio Matsumoto “Funeral Parade of Roses” (1969).
La fortuna per tutti era la possibilità di essere visti. Di farsi un nome. E questo portò lavoro a Obayashi  che negli anni ’70 diventò uno dei più importanti autori pubblicitari del suo paese, riuscendo a lavorare anche con nomi dello star system come Kirk Douglas, Charles Bronson e Catherine Deneuve. Finalmente nel 1977, al suo esordio ufficiale con la già ricordata commedia horror “House” fa conoscere il suo nome al grande pubblico, senza tradire le sue origini d’avanguardia. Il film, che si vede anche in internet, è una vera festa immaginifica, coinvolgente, di grande impatto visivo, infine giocosa nel suo essere horror, c’è una tale empatia nei suoi personaggi che riesce a comunicare allo spettatore il dovere di partecipare al loro destino.
È facile da questo film saltare al suo ultimo, quasi un testamento, “Labyrinth of Cinema”, presentato nel 2019 al Tokyo International Film Festival. La storia è ambientata in un cinema dove giovani e meno giovani sono risucchiati nella storia del Giappone dai tempi antichi, assistono alla morte violenta, ancora e ancora, fino a Hiroshima poco prima del 6 agosto 1945, giorno del bombardamento atomico della città. Un viaggio nel tempo, un uragano follemente colorato di suoni e immagini di oltraggiosa inventiva visiva, e ancora una poesia sulla vita, sulla sua fine, sull’amore che con il proprio morire forse non si perde definitivamente.

In un salto nel tempo a lui caro, lui ultimo unicorno del cinema, va bene tornare al tempo del primo film della trilogia che il regista dedicò alla sua città, Onomichi, rendendola con il suo prezioso mostrarla una delle città più visitate in Giappone. Quel film del 1982 è il mainstream appeal “I Are You, You Am Me”, film su un tema caro alla cultura giapponese, quello del ruolo dei sessi. Il pregista prende un ragazzo e una ragazza e per un caso fortuito cambiano sesso, lui diventa una ragazza dai modi scortesi e lei un ragazzo timido. Entrambi scopriranno il peso della condizione sociale del nuovo ruolo, ma anche il peso diverso che fisicamente si trovano a sopportare. I dialoghi sono intenzionalmente crudi, come le situazioni in cui i due si trovano: lei è disturbata e turbata dalle variazioni delle dimensioni del suo sesso maschile quando va in bagno, lui scopre l'indisposizione e i dolori delle mestruazioni. Ma soprattutto, al di là dei comportamenti, è il destino che influenza il loro futuro: lei sarà destinata a un matrimonio.

Lascia un’amarezza vitale, sempre, il viaggiare di questo grande regista e tra tanti titoli, pensiamo uno su tutti oltre  a “Sada”, del 1998 storia di film basato sulla vera Sada Abe, che al culmine di un gioco erotico, strangolò l’uomo, gli recise il pene, e se lo portò con sé, una storia che Nobuhiko Obayashi trasforma in un altro visionario capolavoro, premiato a Berlino. Pensiamo a “The Girl Who Leapt Through Time” (1983), un film magnifico, che corre sempre sul filo della banalità del vivere e del dire, per diventare leggenda dell’amore che travalica i cieli e gli universi. In quei luoghi ove forse ora vaga felice questo grande poeta del cinema morto il 10 aprile di questo strano 2020.

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