La scrittrice Djarah Kan, ospite in Ticino: ‘Al razzismo non servono tragedie che lo rappresentino. Chi vive in una pelle che basta a condannarlo, lo sa’
«Le donne nere fanno paura, ma vengono anche ipersessualizzate. I nostri corpi fanno parte di una narrazione coloniale ed esotizzante. Siamo viste come oggetti sessuali, estranee e straniere. Più vicine a un animale selvatico che a una raffinata donna bianca. Umili e umiliate. Questo è il riassunto che potrei fare della donna nera in un’ottica eurocentrica e razzista». Ottica con cui si trova quotidianamente a fare i conti Djarah Kan, scrittrice italo-ghanese attiva nel dibattito culturale sul razzismo e l’identità, nata a Castel Volturno e ora residente a Roma, a cui appartengono queste parole. «Più in generale, dicono di noi che siamo incivili, che proveniamo da mondi arcaici dove il rispetto della donna non è nemmeno lontanamente contemplato», aggiunge Djarah Kan, che sarà ospite di due eventi in Ticino, domani, venerdì 21 marzo, a Trevano, e dopodomani, sabato 22 marzo, a Bellinzona (dettaglio in fondo alla pagina). L’abbiamo intervistata.
Riferendosi al corpo femminile nero, lei afferma che bisogna occupare sé stesse per non farsi scacciare. Cosa intende?
I nostri corpi sono invasi e trasfigurati dallo sguardo bianco. La nostra pelle non è mai abbastanza chiara, i nostri capelli non sono abbastanza morbidi, i nostri nasi non sono abbastanza sottili, i nostri corpi non sono mai sufficientemente conformi. Dentro il corpo di ogni donna nera c’è una persona bianca che ci ripete mattina e sera che la nostra bellezza sarà sempre un simbolo di un mondo esotico mostruoso e alieno. Occupare con il nostro sguardo decolonizzato il nostro corpo significa scacciare da noi stesse lo sguardo bianco. È un esercizio lungo, che inizia con la consapevolezza di avere valore al di fuori degli standard di bellezza e accettabilità europea. Ma soprattutto, dura tutta la vita.
Uno dei numerosi ambiti in cui il razzismo si manifesta in modo particolarmente marcato è quello professionale. Cosa comporta questo, soprattutto per le donne di origine straniera?
In Italia le donne straniere vengono sfruttate e abusate sistematicamente. I luoghi di lavoro sono luoghi di sfruttamento. Il mercato del lavoro ha bisogno di donne che siano ricattabili e che lavorino il doppio e in più senza alcuna tutela. Che cosa c’è di meglio di una cittadina straniera povera, costretta a rinnovare il permesso di soggiorno per motivi lavorativi? Il grado di ricattabilità di una lavoratrice straniera lo decide lo Stato nel momento in cui decide di non tutelarla dagli abusi in cui è possibile incappare quando si cercano lavori poco qualificati. Non si è delle lavoratrici immigrate sfruttate per caso. La filiera dello sfruttamento delle lavoratrici immigrate, spesso impiegate nel lavoro di cura, comincia dal razzismo sistemico dello Stato italiano.
Razzismo sistemico che è presente anche in Svizzera. Tornando al Paese dove lei è nata e cresciuta, a suo giudizio quali sono le peggiori decisioni politiche che ha preso negli ultimi anni il governo italiano rispetto alle persone migranti?
Il memorandum del 2017 che regala soldi alla Libia per sequestrare e torturare i migranti che provano a imbarcarsi per raggiungere le coste italiane insieme alla costruzione dei due Centri per il rimpatrio in Albania sono i più grandi capolavori di questo mio amatissimo Paese chiamato Italia.
C’è qualche caso di cronaca che rappresenta in maniera emblematica il problema del razzismo strutturale?
Jerry Essan Masslo, rifugiato sudafricano e bracciante agricolo, è stato ucciso nel 1989 in Provincia di Caserta in un contesto di sfruttamento disumano e marginalizzazione dei lavoratori immigrati. Muhammad Shahzad Kan, cittadino pakistano di 28 anni, è stato picchiato a morte a Roma nel quartiere di Tor Pignattara il 18 settembre 2014. Roberto Pantic, nella notte tra il 21 e 22 febbraio 2015 a Calcio, è stato ucciso con un colpo di pistola mentre stava dormendo nella sua roulotte. Sare Mamadou è stato ucciso da un colpo di fucile in pieno petto per il furto di un melone marcio in un campo; un melone marcio. Emmanuel Chidi Namdi, richiedente l’asilo nigeriano di 36 anni, è morto il 5 luglio 2016 a Fermo perché ha “osato” ribellarsi di fronte a un insulto rivolto alla sua compagna. Yusupha Susso, 21 anni, studente di origine gambiana, è stato insultato, picchiato e colpito da uno sparo alla testa a Palermo nelle strade di Ballarò da un gruppo di uomini il 2 aprile 2016. Sei giovani di origini africane sono stati uccisi nel 2008 nella strage camorrista di Castel Volturno. Altri sei sono stati feriti a Macerata nel 2018 da un attentatore di estrema destra. Ma il razzismo non ha bisogno di tragedie specifiche per rappresentare sé stesso: chi vive in una pelle che basta a condannarlo, lo sa.
L’hate speech online – l’espressione di messaggi che incitano all’odio, alla discriminazione o alla violenza verso un gruppo di persone a causa di caratteristiche come etnia, religione, orientamento sessuale, identità di genere – è una deriva preoccupante del linguaggio nel mondo digitale. Quanto è frequente quello di tipo razzista? Lei l’ha mai subito?
Sui social network incappare in contenuti di natura razzista è la normalità. A nulla servono le famigerate linee guida delle comunità di Facebook e Instagram. Meta fa un pessimo lavoro rispetto alla prevenzione dell’odio online. Inoltre da quest’anno Mark Zuckerberg ha assicurato ai suoi utenti che molte delle inutili restrizioni messe in campo per contrastare il linguaggio d’odio verranno rimosse per respirare una maggiore libertà d’espressione. Oggi creare contenuti a sfondo razziale è più che tollerato sugli spazi digitali. Nel mio lavoro mi capita spesso di essere insultata per quello che faccio e che sono. Non è facile ma è pur vero che pretendere rispetto sulla piattaforma di un imprenditore miliardario che ci offre un servizio scadente facendolo passare per pura avanguardia è una totale assurdità. Conosco i social media e so che il loro obiettivo non è fare del bene alla società, ma sfruttarla ove è possibile.
Cosa pensa delle iniziative di “decolonizzazione” degli spazi pubblici (rimozione di statue controverse, revisione dei programmi scolastici)? Sono utili?
La storia dell’Europa è la storia delle sue colonizzazioni più violente e riuscite. Purtroppo questa specifica storia che viene raccontata in Occidente tende a rimuovere gli aspetti più traumatici e violenti che hanno caratterizzato i suoi rapporti con il Sud e l’Est globale. Con questa rimozione si creano due versioni della storia. La storia ufficiale che è sempre scritta dai vincitori, e quella ufficiosa delle cui conseguenze sono testimoni i vinti. La decolonizzazione degli spazi pubblici è un processo violento, è inutile negarlo. Ma se la storia egemonica è un’imposizione violenta, come possiamo pensare che la decolonizzazione possa essere un processo lineare e pacifico? Si buttano giù statue affinché lo sguardo sulla storia e sul nostro presente sia libero dalle menzogne dei colonizzatori.
Che impatto hanno avuto movimenti come Black Lives Matter o #MeeToo nel dibattito pubblico e sulle persone direttamente coinvolte da violenze razziste e sessiste? Qual è il loro lascito?
C’è stato un momento storico durato sfortunatamente troppo poco in cui entrambi i movimenti hanno dato luce a tematiche, riflessioni e pratiche politiche incredibilmente progressiste. Il #MeToo e il Black Lives Matter sono stati capaci di portare al centro della cultura egemonica vite, esperienze e teorie da sempre lasciate ai margini dell’interesse pubblico. Avevamo tutte e tutti l’impressione che il mondo si fosse ribaltato e che le categorie di individui da sempre costretti a una posizione di subalternità finalmente potessero avere la possibilità di essere ascoltati e di costruire collettivamente un’esistenza priva di limitazioni, abusi e violenze. Purtroppo le energie espresse in questi ultimi anni sono state integrate all’interno del sistema capitalistico che le ha inglobate e di fatto normalizzate, privandole della loro capacità di rompere schemi culturali autoritari e conservatori. Poi la risposta delle destre non si è fatta attendere. Il rinculo è stato doloroso, la vittoria di Donald Trump ne è l’esempio più spaventoso. Per ora le destre avanzano, tuttavia le persone continuano a resistere.
Domani Djarah Kan sarà ospite della giornata “Sensibili al dialogo: scuole contro il razzismo” organizzata presso l’aula magna ‘La Grande’ del Centro studi di Trevano dall’Istituto della transizione e del sostegno (della Divisione della formazione professionale che fa parte del Dipartimento educazione, cultura e sport) con il sostegno del Servizio integrazione stranieri (del Dipartimento delle istituzioni) nell’ambito della Settimana contro il razzismo. L’iniziativa – pensata per allievi e allieve, docenti, operatori e operatrici sociali e persone attive nella scuola e nelle associazioni – vuole offrire strumenti di comprensione e riflessione sulle dinamiche della discriminazione e dell’odio, con un focus particolare sull’uso del linguaggio e la sua influenza nella costruzione di stereotipi e pregiudizi. In un dibattito moderato dalla poetessa e ricercatrice Stella N’Djoku, ci saranno, oltre alla scrittrice italo-ghanese, Takoua Ben Mohamed, graphic designer e autrice di graphic novel impegnate sul tema dell’integrazione e della diversità, e Kevin Merz, filmmaker attento al tema delle origini e delle radici culturali. Programma completo su: www4.ti.ch/di/integrazione-degli-stranieri/settimana-contro-il-razzismo.
Sabato 22 marzo Djarah Kan sarà invece ospite dell’evento “Includere attraverso le parole – Colazione letteraria”, organizzato da Sostare (l’impresa sociale di Sos Ticino che celebra quest’anno il decimo anniversario) in collaborazione con la Biblioteca cantonale di Bellinzona, dove avrà luogo l’incontro a partire dalle 10 (colazione offerta). Sarà un’occasione per esplorare il legame con la parola “inclusione” attraverso un dialogo in cui interverrà anche l’attrice e regista teatrale Margherita Saltamacchia che darà voce ad alcune storie tratte dalla rivista ‘Vivavoce’ di Sostare. Maggiori informazioni: www.sostare.ch.