A colloquio con il giornalista e reporter di guerra italo-svizzero, ospite del Festival di economia organizzato dalla Scuola cantonale di commercio
«Ci sono due tipi di odori che accomunano gran parte degli scenari di guerra che ho visitato. Quelli più terribili dei corpi in putrefazione misti a polvere da sparo e macerie dopo i bombardamenti. E quelli inaspettatamente gradevoli anche nei contesti più disgraziati, come il profumo del sugo preparato su un fornello elettrico da un vecchietto rimasto a vivere lungo il fronte che ti invita a casa sua, o del rancio che il soldato spartisce con te». L’umanità annientata e quella che resiste insieme ai suoi migliori valori sono parte della quotidianità professionale di Luca Steinmann, giornalista e reporter di guerra italo-svizzero, ospite giovedì 20 febbraio di una serata pubblica nell’ambito del Festival di economia organizzato dalla Scuola cantonale di commercio (appuntamento alla Biblioteca cantonale di Bellinzona alle 18.30; presente anche Lorenzo Cremonesi, già inviato del ‘Corriere della Sera’, in videoconferenza; modera Aldo Sofia). Steinmann è stato in numerosi scenari di conflitto che negli ultimi anni hanno occupato le principali pagine di cronaca internazionale: dal Libano (sia sul lato israeliano che su quello di Hezbollah) alla Siria (nei territori in mano ad Assad e in quelli abitati dai jihadisti ribelli), dal Nagorno Karabakh (durante i combattimenti e dopo la fuga degli armeni mentre veniva ripopolato dagli azerbaigiani) al Donbass (dove nei primi mesi del 2022 è stato uno dei pochissimi giornalisti occidentali a seguito dei soldati russi, ciò che ha raccontato su diverse testate italiane e svizzere). Il 25 febbraio uscirà un suo nuovo libro edito da Rizzoli, «una sorta di diario di guerra dalle zone più inesplorate di questi territori» – lo definisce il nostro interlocutore – dal titolo ‘Vite al fronte. Donbass, Libano, Siria, Nagorno Karabakh: il grande intreccio delle guerre nelle storie di chi le ha vissute’.
L’idea di scriverlo, ci spiega Steinmann, «è nata dalla constatazione che spesso le guerre vengono rappresentate come se fossero tante partite di calcio, ognuna a sé stante. Ma viaggiando tra i vari territori mi sono sempre più reso conto di quanto siano in realtà tutte molto interconnesse. Ho voluto quindi raccontare questi collegamenti attraverso le storie delle persone che ho incontrato». Persone civili, soldati, mercenari, gente che non avrebbe mai pensato di imbracciare un’arma ma si è ritrovata a farlo, ex combattenti, vittime. Insomma, «di tutto un po’. Ho conosciuto ebrei ucraini ed ebrei russi scappati in Israele dove poi si sono trovati nel contesto di un altro conflitto, quello intorno a Gaza – esemplifica Steinmann –. Palestinesi fuggiti invece proprio da quei territori, che sono finiti coinvolti nei conflitti in Siria e Libano. Armeni andati via dalla Siria per riparare in Nagorno Karabakh, in un’altra situazione di crisi». Entrando nei loro mondi, il reporter ha cercato di mettere in luce anche l’aspetto geopolitico dei vari intrecci che «non a caso – rimarca – papa Francesco ha definito “una terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, ovvero un unico grande conflitto con tanti teatri».
Teatri in cui vanno in scena tragedie spesso scatenate da contrapposti interessi economici. «Assolutamente – concorda Steinmann –. Tendiamo a prendere in considerazione soprattutto le religioni, le culture, la storia, che sono sì tutti fattori importanti, ma alla fine è il vil denaro ad alimentare in modo preponderante i conflitti. Se osserviamo quanto sta avvenendo nel Caucaso tra Armenia e Azerbaigian, la forza di quest’ultimo è dettata non soltanto dalla sua potenza militare ma anche da quella economica dovuta al fatto che è un partner fondamentale sia della Russia che della maggior parte dei Paesi occidentali europei per il rifornimento di idrocarburi. Denaro, petrolio e gas sono dei tasselli fondamentali da prendere in considerazione, e in molti casi l’ideologia e la religione vengono artificialmente adattate a questi aspetti molto più materiali».
Steinmann, classe 1989, ha frequentato la facoltà di scienze politiche a Milano. Da allora è passata una quindicina di anni. Come si prospettava il futuro in quel momento e quanto della teoria è stato disatteso? «In quegli anni si studiava il diritto internazionale come qualcosa che quasi automaticamente si sarebbe diffuso in tutto il mondo insieme all’internazionalizzazione delle comunicazioni. Invece non è andata così, anzi. Ci sono sempre meno leggi e meno regole condivise. C’è sempre più la tendenza a concepire le istituzioni e il diritto internazionali come strumenti da tirar fuori nei momenti in cui sono utili alla propria causa, lo dimostra in modo eclatante il caso della Corte penale internazionale: da seguire qualora emetta un mandato d’arresto per il nemico, ma non se lo fa per l’alleato». Secondo il reporter «sta venendo sempre meno un presupposto di legge comune a livello internazionale e ognuno cerca di andare per la propria strada. Come scrivo anche nel libro, spesso chi vince nelle guerre è anche colui che determina come ci si comporterà in futuro. Tornando alla Corte dell’Aia, sul banco degli imputati ci sono sempre finiti gli sconfitti, come Milošević una volta caduto, mai coloro che hanno prevalso».
“Dialogo in tempo di guerra” è il titolo dell’edizione di quest’anno del Festival dell’economia della Scuola cantonale di commercio. Rispetto alla possibilità di vedere un dialogo instaurarsi nei contesti bellici, dal suo osservatorio Steinmann constata quanto questo sia più facile «nella convivenza quotidiana tra le persone che non sul piano politico. Per combattere delle guerre e avere successo, i diversi gruppi o Stati hanno bisogno di compattare i fronti interni, di avere delle comunità coese. Questo viene fatto attraverso narrazioni spesso nazionaliste o comunque con poche sfumature. Andando però sul campo ci si rende conto che la coesistenza tra diversi popoli c’è. Soprattutto al di fuori dei Paesi di origine tra loro in conflitto, le diverse comunità riescono a trovare forme di vita insieme. Quando c’era ancora Assad al potere in Siria sono stato nell’antico quartiere ebraico di Damasco che negli anni Novanta è stato abbandonato dagli ultimi ebrei. Lì ho incontrato una famiglia di palestinesi arrivati dopo aver dovuto lasciare il proprio villaggio in Palestina nel 1948. La loro vita era dunque stata segnata profondamente dalla nascita di Israele, dalla fuga, dalla Nakba. Eppure parlavano con grande affetto e nostalgia degli ebrei che un tempo a Damasco erano loro vicini».
L’accoglienza che si vede riservare Steinmann è molto variabile a dipendenza degli scenari, delle culture, degli individui. «Volendo fare una categorizzazione, nei territori di cultura russa inizialmente ci si scontra molto spesso con una grande parete di gelo posta di fronte ai giornalisti occidentali visti come i rappresentanti di un mondo contro cui si sta combattendo. Una volta rotta questa spessa barriera, tuttavia, si riescono a instaurare amicizie anche molto profonde. Dall’ostilità iniziale si passa a una relazione di fiducia generalmente molto forte. Nel mondo mediorientale invece l’accoglienza è improntata fin da subito su una grande gentilezza e ospitalità, ma si rimane spesso su un piano formale, il che vuol dire tanti rapporti cortesi ma non sempre profondi».
Steinmann non ha un metodo standard per avvicinarsi alle persone che poi andranno a popolare i suoi reportage. Certo è, secondo il giornalista, che «all’informazione spesso manca la perseveranza. Per potersi muovere agilmente sul territorio, per ottenere la fiducia delle persone, per comprendere meglio quello che vivono, è necessario del tempo. L’ideale è tornare ripetutamente in un territorio, incontrare gli stessi abitanti, vedere come cambiano in relazione agli eventi geopolitici. Questo permette di rendersi veramente conto di quali sono gli impatti profondi delle guerre sulle società e sulle persone. Purtroppo però oggi l’informazione è molto rapida e non consente ai giornalisti di stare abbastanza con le persone». Quando invece questa condizione è data, bisogna però stare attenti a non affezionarsi troppo a qualcuno e a non perdere l’obiettività, rileva Steinmann: «Esistono ovviamente legittime simpatie o antipatie nei confronti degli interlocutori. Ma è essenziale saper tenere da parte le proprie preferenze, le idee, i valori, le convinzioni personali. L’attività giornalistica non deve mai essere mischiata con la militanza politica o l’attivismo. Nella vita privata, o se mi viene chiesto durante una conferenza, posso esprimere le mie opinioni, ma non in un prodotto di cronaca».
Testimoniare i fatti per quel che sono è una responsabilità che Steinmann prende molto sul serio: lottando per avere un accesso diretto alle fonti, una presenza di persona sul territorio, una visione non filtrata di quello che succede. Un lavoro che in primo luogo, dice, «arricchisce me stesso, e penso che ciò valga per tanti altri colleghi. Avere la possibilità di essere più informato e un po’ più sovrano è quanto di più prezioso porto nel mio bagaglio». Per contro tra gli aspetti più negativi del mestiere c’è la gestione della vita privata, dichiara Steinmann: «Fare il reporter di questo tipo richiede una disponibilità e una flessibilità molto grandi a causa dell’impossibilità di pianificare gli spostamenti. Non si sa esattamente quando e dove potrebbe scoppiare una guerra o iniziare una crisi, e questo porta tutta una serie di difficoltà anche nella gestione dei rapporti familiari e personali. E poi c’è il pericolo che fare questo mestiere diventi anche un po’ una fuga dalla realtà e dalle responsabilità più banali della vita di tutti i giorni, che però sono importanti».
Nell’ampio spaccato di umanità sofferente che Steinmann ha incontrato nei propri viaggi, una categoria ad averlo sempre particolarmente colpito – anche perché spesso dimenticata – è quella degli anziani. «L’impressione è che siano trascurati nelle narrazioni perché sono meno “fotogenici”. Le immagini e le storie sui bambini sono molto più impattanti di quelle dei vecchietti, anche perché la concezione diffusa è che tanto non resti più loro molto da vivere. Pensando però ai bambini in fuga in vari Paesi, malgrado tutto ho visto molti di loro giocare, quasi fossero impermeabili al contesto circostante. La postura degli anziani è invece sempre molto differente. Non solo per le fatiche fisiche, ma pure per la consapevolezza di quanto lasciano. La casa bombardata è anche la distruzione delle memorie, i frutti delle fatiche di una vita persi, una parte della propria identità di colpo cancellata». Un tipo di dolore e di esperienza a cui Steinmann cerca di restituire uno spazio degno, fin da quelle mani sul volto solcate dalle rughe del tempo, da quell’edificio con crepe che paiono radici divelte, che si stagliano sulla copertina di ‘Vite al fronte’.