Società

La Cina e il figlio unico di Stato

Intervista a Lynn Zhang, ospite del Film festival diritti umani di Lugano con ‘One Child Nation’. Tra propaganda e violazione dei diritti fondamentali

8 ottobre 2019
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Settecento milioni: questa la popolazione ideale cinese, il limite massimo per garantire il benessere della nazione, in base a quanto calcolato dal governo alla fine degli anni Settanta – quando il numero di abitanti aveva già superato il miliardo. Così, se fino agli anni Sessanta la prosperità era da raggiungere con un aumento della popolazione – e contrastando i programmi di pianificazione familiare –, le legittime preoccupazioni per la sovrappopolazione globale imposero un drastico cambio di rotta: la politica del figlio unico.

A suo modo, un grande esperimento di ingegneria sociale. E un esperimento che nel suo fallimento si è dimostrato un successo, come mostrano le immagini del documentario ‘One Child Nation’ di Nanfu Wang e Lynn Zhang, uno dei film di questa prima giornata di Film festival diritti umani, alle 13.30 al Cinema Corso di Lugano (programma completo su www.festivaldirittiumani.ch). Fra gli altri appuntamenti della giornata, l’incontro con la giornalista Federica Angeli (in programma alle 18.15) e alle 21 l’inaugurazione ufficiale con ‘La Cordillera de los sueños’ di Patricio Guzmán.

La politica del figlio unico è un fallimento per le sistematiche violazioni dei diritti umani, per le conseguenze sulla società cinese. Ma è anche un successo perché, a dispetto di tutto, la popolazione è tutt’ora convinta della bontà dell’operazione. «Non posso dirmi stupita di questo supporto» ci spiega Lynn Zhang, coregista del film a Lugano per presentare il documentario. «La madre di Nanfu Wang è venuta al Sundance per vedere il film e ha detto di essere molto orgogliosa della figlia, ha detto che il film è importante, veritiero… ma poi ha aggiunto che la politica del figlio unico era necessaria, era giusta». Una reazione che le due registe hanno riscontrato in molte delle interviste realizzate per il film, «incluse quelle alle vittime dirette, convinte anche loro che fosse necessario per il bene comune».

Merito della propaganda, «di come il governo ha manipolato le paure delle persone per convincere tutti che la politica del figlio unico fosse l’unica possibilità per non soffrire la fame e la povertà».

Vergogna fraterna

Entrambe le registe, oggi residenti negli Stati Uniti, sono nate in Cina e sono cresciute con questa onnipresente propaganda del figlio unico che Lynn Zhang ricorda bene. «La propaganda era ovunque e non riguardava solo la politica del figlio unico, ma tutta l’attività di governo. Televisione, giornali, libri di scuola ogni tipo di informazione che ti circondava riguardava le politiche governative».

E poi c’è lo stigma sociale verso chi – in base ad alcune eccezioni previste perlopiù per chi vive nelle zone rurali, come primo nato ha avuto una femmina e ha pagato la relativa sanzione – ha un secondo figlio. Come i genitori di Lynn Zhang: «A scuola ero quella con un fratello: era una sorta di etichetta, una cosa di cui doversi vergognare».

Una situazione che prosegue ancora adesso che la politica del figlio unico è stata sospesa – o meglio sostituita da una politica che non solo ammette, ma incoraggia ad avere due figli. «La propaganda è la stessa, la mentalità è la stessa, semplicemente si è aggiornata», ovviamente senza che le autorità ammettessero di essersi sbagliate o di aver cambiato idea. «Adesso in televisione ci sono dei cartoni animati che spiegano alle coppie quanti figli avere, quali sono i vantaggi ad avere due figli; articoli sul ‘Quotidiano del Popolo’, il giornale nazionale, in cui si spiega che avere figli non è una questione privata ma un affare di Stato, una cosa che riguarda il Paese». Le persone diventano «strumenti di sviluppo economico, ma scegliere quanti figli avere dovrebbe essere un diritto umano fondamentale».

Perché uno degli effetti della propaganda è appunto quello di nascondere la realtà della politica del figlio unico: una violazione dei diritti umani fondamentali. Che non avviene solo tramite multe – che comunque in alcuni casi ammontano al reddito di diversi anni e comportano la confisca di tutti i beni – ma anche tramite sterilizzazioni forzate, aborti, neonati abbandonati, uccisi o semplicemente non registrati, e quindi esclusi dalla società. «Prima di iniziare il nostro lavoro di ricerca, neanche noi conoscevamo il quadro generale, perché sono aspetti di cui chiaramente il regime non parla, al massimo trovi pezzi di informazione su internet ma è difficile metterli insieme».

Un basso profilo

Un quadro generale che ‘One Child Nation’ cerca di tracciare, partendo dal villaggio di Nanfu Wang e dalla storia della sua famiglia – incluso lo zio che abbandona al mercato la figlia neonata, perché avere un maschio era, ed è, troppo importante per rinunciarvi in nome del figlio unico. Il che ha portato a un importante sbilanciamento tra i sessi: secondo alcune stime, gli uomini sono 30 milioni in più delle donne. Uno dei tanti “effetti sociali collaterali” della politica del figlio unico, ma è un aspetto sul quale il film non si sofferma più di tanto. Per questioni di tempo, certo – «non potevamo fare una wikipedia della politica del figlio unico» – ma anche perché «abbiamo deciso di concentrarci sugli aspetti più forti e personali, e su come la propaganda entra nelle persone».

Le autorità cinesi vi hanno lasciato lavorare in pace? «Abbiamo mantenuto un basso profilo, pianificando con estrema cautela ogni spostamento» in modo da sfuggire alla sorveglianza cui molto probabilmente era soggetta Nanfu Wang per il suo precedente documentario, ‘Hooligan Sparrow’, su alcune attiviste cinesi. «Per quel film era stata interrogata dalla polizia segreta, per cui poteva essere stata inserita nella lista di sorveglianza: meglio viaggiare con auto private, dormire da amici invece che in hotel, usare il meno possibile il cellulare…».

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