Società

Transumanze, un ritratto di Carlo Meazza

Storie di uomini e donne. Incontro con un fotografo, ricordando una Varese meno caotica, passando per Tibet, Uganda, America Latina e quei pastori che vanno in alto

Carlo Meazza
21 aprile 2019
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Qualche giorno fa, un gregge di pecore transitava su un vasto appezzamento ai margini di Malnate, paese a pochi chilometri dal Gaggiolo. Il pastore, i cani. Un rapporto insito nella storia dell’uomo e già Varrone nel 37 a.C. parla del magister pecoris. L’immagine, mi riportava all’incontro avuto con Carlo Meazza, fotografo, che alla transumanza sta dedicando un nuovo progetto. Parlare di Carlo è parlare di Varese, dei bellissimi parchi e ville che la circondano. È seguire i suoi paesaggi. Ma, pensando all’opera fotografica riunita in una settantina di volumi pubblicati dal ’73 a oggi, troviamo uno sguardo esteso al mondo: Tibet, Uganda, America Latina.
Ne abbiamo parlato nella casa dove abita, tra vie e cortili della vecchia Masnago.

Le tue origini?
Mio padre Giuseppe era giornalista alla ‘Prealpina’. Per ragioni di attaccamento alla famiglia ha deciso di restare al giornale, pur ricevendo altre proposte.

Di cosa si occupava?
Di cronaca, diventando poi capocronista e direttore dell’edizione del lunedì. Una forte passione per la scrittura, come si vede dai diari tenuti da lui nel corso degli anni.

E tua madre?
Maria Mella, diplomata maestra. Si sposa a ventun anni e arrivano i figli; Donatella, io, Mariangela. Abitavamo in via Goldoni, periferia, una Varese diversa da quella di oggi; la ricordo più silenziosa, forse più ordinata, con i tram che l’attraversavano da est a ovest proseguendo per Ponte Tresa e Luino. E la funicolare per il Sacro Monte. Ho imparato a nuotare nel lago quando era pulito, anche se dopo tanto inquinamento la situazione è migliorata.

Ricordo il mercato di frutta e verdura dei Casbenat.
Tutti in Piazza della Repubblica. Mercato che è andato avanti per molti anni. Una Varese dove tutto era meno intenso e caotico.

E i grandi alberghi?
Fino agli anni 50, nei ricordi di bambino. Al Campo dei Fiori e alla prima cappella; Sant’Ambrogio e Ronco.

Una città, verde.
Abbiamo tanti parchi; i Giardini Estensi, in centro. Villa Mylius, Villa Toeplitz e altri disseminati nella città. In questo senso, siamo avanti rispetto a molti capoluoghi di provincia.

I primi interessi?
Letterari. Alle medie andavo bene in italiano e storia, non in matematica. Uscito, considerando che eravamo tre figli, m’iscrivo all’Istituto Tecnico Industriale, specializzazione in materie plastiche. Facendo molta fatica nelle materie scientifiche.

E dopo?
Tutti hanno trovato occupazione, tranne me e qualcun altro che voleva continuare gli studi. A parte questo, la scuola è stata importante dal punto di vista umano.

In che modo?
C’erano ragazzi che venivano dalle parti sperdute della provincia, figli di contadini o di operai che li facevano studiare per migliorarne la condizione. Con grandi sacrifici. Amici simpatici, intelligenti, persone con cui non c’era da scherzare consapevoli com’erano: noi avevamo in mente gli scioperi, loro si applicavano per raggiungere il diploma.

La fotografia, è di quegli anni?
Sì. Mio padre diceva: ‘abbattono quella casa, vai a fare una foto e la porti a sviluppare!’. Fotografavo compagni, professori. E per cercare di colmare i buchi che c’erano, m’iscrivo a sociologia con l’impegno di trovare un’occupazione.

Momenti decisivi.
Mi sentivo improvvisamente grande, responsabile rispetto a una storia famigliare. Facevo sport e facilmente si trovavano supplenze di educazione fisica: queste, hanno consentito di mantenermi. Ero comunque sicuro che avrei fatto il fotografo e non il sociologo. Con qualche risparmio parto per l’America Latina.

Al ritorno?
Conosco un fotografo svizzero, Jo Locatelli, che lavorava al ‘Giornale del Popolo’. Mi dice che un collega sta andando via, così per un anno vado a lavorare là. Con lui, Ely Riva. In Cile correvano gli anni della dittatura e durante una pausa al bar mi ero espresso criticando la posizione un po’ morbida del giornale. Qualcuno ha riportato al direttore e arriva il licenziamento.

Carlo, entra a Varese nello studio di un amico fotografo e dopo un anno inizia a collaborare con il settimanale ‘Il Sabato’, legato a Comunione e Liberazione. «Non sono del movimento, posso dirmi di sinistra, ma qui ho fatto esperienze interessanti perché usavano molto bene la fotografia. Un giornale che poteva essere letto da altri, rigido solo su alcuni temi. I reportage con il giornalista, inviato, Robi Ronza, sono stati di notevole spessore: Asia, Spagna, Nord Europa. Poi l’Iraq. Intanto, avvio una collaborazione con ‘Bell’Italia’».

Il primo libro?
Quarant’anni fa, i viaggi con Ronza. L’incontro con Madre Teresa di Calcutta, i profughi della Cambogia e l’occupazione dell’Ambasciata americana a Teheran.

E quello sul Sacro Monte?
Realizzato non solo per il luogo d’arte, ma per la frequentazione della gente che ci va per fede, a camminare, a prendere il sole.

Uno sguardo ampio.
Credo sia per gli anni di sociologia, a Trento, perché i lavori fatti di mia iniziativa portano dentro questa complessità. Per il lavoro della transumanza, oltre le fotografie raccolgo i racconti di vita dei pastori.

Ecco solo qualche traccia del lavoro quarantennale di Carlo Meazza, (www.carlomeazza.it): ‘Ticino, il fiume dalle sorgenti al Po’; ‘Monterosa’; ‘Gente del Tibet’; ‘Luoghi di un’amicizia, Antonia Pozzi, Vittorio Sereni’. Di lui si parla per gli straordinari paesaggi, ma sulle pareti di casa ecco volti e persone. Un pescatore del lago di Varese; suore che guardano dentro una cappella; bambini che escono da una scuola in Tibet.

Chi ti ha influenzato di più a livello fotografico?
Ugo Mulas, che in Italia ha portato una svolta. Senza togliere nulla a Donzelli, Giacomelli, Zavattini. Degli stranieri, Robert Frank, Roman Vishniac, Robert Doisneau.

Come arriva la foto?
La senti in qualsiasi luogo tu sia. Improvvisamente le cose raccontano, a te spetta coglierle, essere nella posizione giusta. Una combinazione di cose: luce, grafia, contenuti.

E il cambiamento tecnologico?
Ho fatto molta fatica, ero legato alla pellicola. Un collega mi propone una macchina digitale e ho visto che cambiava il mondo. Chiudevano anche i laboratori, un problema. Presa la decisione, sofferta, mi è sembrato di essere alleggerito: peso, velocità, archiviazione.

È tempo di andare e usciamo con il fedele cane, Briga. Le ultime parole sono per una comune passione, il basket, per cui Carlo ha scattato foto indimenticabili in un volume che racconta la ‘Pallacanestro Varese’. Vale a dire, ‘Uomini e storie tra Masnago e il Tibet’. Ma qui, le strade si dividono per scelta di maglia e non possiamo scordare, prima di salutarci, i grandi derby vissuti sugli spalti. Ma era un’altra epoca…

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