Società

La lunga marcia delle bufale, fra Facebook & Co

La disinformazione cresce e diventa un'emergenza europea: per colpa dei social, certo, ma anche della mente umana. Intervista a Massimo Polidoro.

27 aprile 2018
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Uno spettro si aggira per il mondo dell’informazione: lo spettro delle fake news. Così, mentre la diffusione, soprattutto ma non solo sui social media, di notizie false e inventate diventa oggetto di discussione politica – vedi la recente presa di posizione dell’Unione europea – Syndicom organizza, domani, un pomeriggio all’Aula magna Supsi di Trevano per discutere di fake news e non solo. La giornata si aprirà infatti alle 15 con un incontro con Cristina Marcionetti sulla situazione dell’Ats, l’agenzia di stampa svizzera. Alle 16 si parlerà, appunto, di fake news con ospiti il giornalista Carlo Silini e lo scrittore e divulgatore Massimo Polidoro, esperto di psicologia dell’insolito e socio fondatore del Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze, associazione che da anni si batte per lo sviluppo dello spirito critico e la corretta informazione scientifica.

Massimo Polidoro, siamo davvero  di fronte a un’emergenza, oppure gli allarmi per la diffusione delle fake news sono a loro volta delle fake news?
Ovviamente le bufale, le fandonie e le menzogne sono sempre esistite, partendo dall’Impero romano e, ci fosse una documentazione, probabilmente da ancora prima. E sempre esisteranno. La differenza oggi è data dallo strumento del web che permette di diffonderle e di amplificarle in maniera rapidissima. Probabilmente è questo l’elemento che preoccupa di più: lanci una fandonia e queste viene immediatamente ritenuta vera, con conseguenze di tipo politico, economico, sociale… Diventa quindi un argomento di cui occorre occuparsi.

È solo questione di maggiore diffusione oppure c’è altro?
Un altro aspetto, oggi che viviamo tutti quanti interconnessi, riguarda i nostri dati personali. Che diventano non tanto di dominio pubblico, ma strumento per manipolare le nostre decisioni. Oltre alla velocità c’è insomma una questione di pervasività dello strumento tecnologico.

Ci si concentra sui social media, ma forse il vero problema è la psicologia umana… Alla fine Facebook, Twitter, Instagram eccetera producono certi effetti perché la nostra mente funziona in una determinata maniera.
Certamente. Siamo attratti più dall’aspetto emotivo che da quello razionale, tendiamo a restare colpiti da informazioni presentate in un certo modo e anche se poi sono delle bufale colossali le propaghiamo. E questo perché in effetti siamo fatti così: è la questione dei “pensieri lenti” e “pensieri veloci” dello psicologo, premio Nobel per l’economia, Daniel Kahneman: siamo portati a decidere in fretta, in maniera automatica, emotiva, limitando solo a casi particolari il pensiero lento, il ragionamento che richiede fatica.

Il che porta a pregiudizi e distorsioni cognitive, i famosi ‘bias’, come quello di conferma.
L’effetto si vede soprattutto, ma non solo, online, dove ci ritroviamo a nuotare in un acquario dove ci sono solo pesci che la pensano come noi. Per noi la realtà è quella e troviamo continuamente conferme alle nostre idee. Walter Quattrociocchi le chiama le “camere dell’eco”: luoghi dove sentiamo rimbalzare sempre le stesse opinioni. Perché appena sentiamo un’opinione discordante la isoliamo.

Qual è il ruolo del giornalismo, in tutto questo? Le testate sono nostre alleate nella lotta alle fake news o, al contrario, contribuiscono alla loro diffusione?
La questione è che i media tradizionali si ritrovano a competere in un mondo che ha un ritmo molto più veloce. In questa corsa è inevitabile che a rimetterci sia la verifica delle notizie. Così anche sui media tradizionali arriva lo strafalcione, dando spazio a qualcosa che in altri tempi sarebbe stato messo da parte. Anche se questo non vuol dire che un tempo i giornali fossero più credibili: anzi, su certi argomenti – come ben sappiamo al Cicap, dove da trent’anni ci occupiamo di paranormale e pseudoscienze – sono spesso incapaci di dare una visione critica.

Evidentemente anche prima del web, i tempi del giornalismo erano più rapidi di quelli lunghi della scienza… Ma all’atto pratico, come difenderci?
A breve termine, bisogna imparare a diventare non dico dei fact checker, ma abituarsi a mettere a confronto fonti diverse, sapere come farsi un’idea dell’affidabilità di una fonte. Non fidarsi dei titoli strillati e delle frasi a effetto come “nessuno ne parla”, “quello che gli altri non dicono”. Nel lungo termine, la cosa più utile e interessante è investire nello sviluppo del senso critico. E questo lo devi fare con i giovani, perché sono loro che si ritroveranno ad affrontare i problemi più grossi. Ma se a scuola non si insegna come destreggiarsi tra le notizie, a valutare le informazioni e le fonti, è molto difficile sperare che le cose migliorino.

Che fare se un amico condivide una bufala?
Domanda difficile. Perché se cominci a scrivere ai tuoi contatti “occhio che è falsa”, la fai comunque circolare e conoscere. E molti la prenderanno per vera, visto che spesso ci si ferma al titolo e non si legge neanche il commento. La segnali alle forze dell’ordine? A meno che non sia una cosa di grave, non ha senso. Non è facile.

Avesse una bacchetta magica per realizzarlo, ci sarebbe un qualche cambiamento strutturale nei social network che potrebbe migliorare la situazione? Non so, impedire la condivisione dei contenuti che non sono stati letti…
Chiuderebbero in pochi giorni! Il problema è che qualunque soluzione immagini alla fine rischia di diventare liberticida. Il che per certi ambiti può andare benissimo – pensiamo al razzismo o a ideologie criminali che è chiaro che non devono avere spazio –, ma il confine non è sempre così chiaro. Non è facile. Anche avendo la bacchetta magica, cosa si può fare, tornare ai tempi in cui non esisteva internet?

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