Pensiero

La pandemia e il futuro della città con Stefano Boeri

Intervista all’architetto italiano, ospite venerdì degli Eventi letterari Monte Verità

Stefano Boeri (foto Michelangelo Foundation)
10 novembre 2021
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Domani si aprirà la nona edizione degli Eventi letterari Monte Verità: ad aprire gli incontri, giovedì 11 al Palacinema di Locarno, sarà Rachel Cusk, fra le più grandi rivelazioni del panorama letterario degli ultimi vent’anni. Tra gli ospiti di venerdì, invece, avremo l’architetto Stefano Boeri che dialogherà con lo storico dell’architettura Manuel Orazi.

Stefano Boeri, la città è ancora attuale dopo la pandemia?

C’è sempre stata una relazione molto importante, e sostanziale, tra epidemie e “salti di livello” urbanistici. Faccio due esempi molto conosciuti: a metà Ottocento John Snow a Londra scopre che in realtà il colera non è dovuto ai miasmi ma alla contaminazione delle acque. Dal suo lavoro parte una riflessione sulle fognature che avrà esiti molto importanti per la costruzione delle città europee. Qualche anno dopo con l’epidemia di peste in Asia si impone una grande attenzione alle fondamenta degli edifici, sulla realizzazione dei vespai, sul livello del pianterreno rispetto alla strada così da evitare che entrino i topi.

La città si è adattata non solo dal punto di vista sanitario ma anche da quello delle regole insediative, del rapporto tra spazio pubblico e privato.

Il Covid che cosa ha portato?

Non dobbiamo avere affanno: non si tratta di processi immediati, il lascito di un evento come questa pandemia non sarà immediato, ci saranno lasciti importanti nella psicologia collettiva e anche nuove domande, nuove esigenze, nuove richieste al modo di abitare. Che cosa possiamo dire oggi? Sicuramente c’è la forte richiesta di una prossimità con la natura che riguarda anche le città: abbiamo capito che la situazione precedente si basava su alcuni presupposti sbagliati come il distanziamento tra noi e la natura. Questo apre a una nuova logica in base alla quale ripensare i nostri insediamenti.

C’è poi un discorso sui tempi e i flussi: se vogliamo evitare fenomeni eccessivi di congestione – elemento già negativo prima della pandemia, in questo non c’è nulla di nuovo – è necessaria una desincronizzazione degli orari dei grandi poli di aggregazione, dai centri commerciali alle grandi aziende alle scuole. Senza dimenticare l’enorme variabile del lavoro remoto che è entrata un po’ dappertutto e che è ancora molto forte: recentemente sono stato a Londra dove si vantano di essere tornati alla normalità, ed effettivamente c’è una nuova normalità ma la maggior parte delle società internazionali continua a lavorare in remoto.

Questo non significa che non ci sarà più l’ufficio o il laboratorio, ma certamente ci sarà un’oscillazione ancora più forte. E una riduzione del numero di spostamenti.

Per gli spazi pubblici cosa ha significato la pandemia?

Abbiamo avuto questa specie di doppio movimento: prima una sorta di introversione con i lockdown e le città vuote, seguito da una fase di estroversione con l’occupazione degli spazi pubblici, penso ai dehors dei locali. Questo è un aspetto molto importante e tornare indietro non sarà facile, adesso che si è capito che una strada può essere un luogo per la comunità e non necessariamente un luogo condizionato dalle lamiere delle automobili che per la maggior parte del tempo sono immobili. Questa è un’altra cosa che spero impareremo.

Un altro punto importante è il decentramento dei servizi e delle attività: anche su questo penso che la tendenza sia ormai irreversibile.

Prima ha parlato di oscillazione tra casa e lavoro. Cosa intende?

Il lavoro si svolgerà in spazi sempre più flessibili anche nel rapporto tra lavoro e momenti di svago e relax. La tripartizione tra casa, lavoro e tempo libero è stata fortemente incrinata e tutti ci auguriamo che resti incrinata, che ci sia maggiore flessibilità, il che non significa lavorare di meno ma lavorare, e vivere, meglio.

Questo lo vediamo anche negli interni: al Salone del libro ho visto esempi di arredamenti che fanno sì che gli spazi di vita si prestino meglio a essere luogo in cui si svolgono funzioni disparate.

È la fine della tripartizione degli spazi tra casa, lavoro e tempo libero?

È meno forte. Abbiamo già adesso una specie di osmosi: si lavora anche in casa o anche in luoghi di relax come un giardino pubblico. E possiamo anche pensare di avere forme di foresteria nei luoghi di lavoro: a Milano sta già accadendo, abbiamo dirigenti che “delocalizzano” la propria vita fuori dalla città e quando vengono a Milano stanno in una foresteria legata all’azienda. Questa fluidificazione penso sia ormai irreversibile.

Ma questa tendenza non rischia di portare a quella che lei ha definito “anticittà”, un’urbanizzazione diffusa senza centri e identità?


Quella dell’anticittà è stata una tendenza molto forte in un certo periodo della storia recente italiana, dagli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta, poi si è in buona parte esaurita. Oggi dobbiamo evitare che la tendenza verso la potenziale delocalizzazione dalle città porti a un fenomeno analogo. Per questo ho parlato molto del recupero dei borghi storici, un patrimonio abbandonato o semiabbandonato di grandissima qualità. Usiamo questa opportunità per tornare ad abitare questi luoghi straordinari, ma in una logica di reciprocità con le città, non di alternativa.

Non una “anticittà” ma in un certo senso “tante città”.

Io parlo di città arcipelago proprio per questo: non più una metropoli che accentri tutto e omogenea al suo interno. Io penso piuttosto a una concertazione delle aree, dei borghi, luoghi dotati tutti di un certo grado di autosufficienza nei servizi al cittadino, con anche la possibilità che ogni area ospiti dei luoghi di interesse generale.

Qui si parla da tempo di “Città Ticino”. Secondo lei è un’idea che va in questa direzione?

Non c’è dubbio: penso che si tratti di una situazione molto fertile da questo punto di vista. Un sistema di centri di medie e piccole dimensioni ben connessi nonostante una orografia ricchissima di variazioni. Il Ticino non può che guadagnare da un lavoro sulla reciprocità e su una distribuzione più consona: è un caso che davvero merita una visione di insieme.

Ovviamente riconoscendo le differenze: quando parlo di arcipelago intendo proprio questo, evitare l’omologazione e l’assimilazione. Locarno e Lugano sono due mondi diversi, c’è sicuramente una linea che le unisce, un territorio che le collega ma non è sensato pensare che debbano essere uguali. Bisogna lavorare sulle differenze, perché sono proprio le differenze che rendono interessanti le sinergie e le collaborazioni.

Differenze o disuguaglianze? Come evitare che di queste trasformazioni benefici solo una parte della popolazione?

Questo è un tema fondamentale. E qui l’intervento del soggetto pubblico è fondamentale nell’introdurre la varietà là dove la varietà non c’è: nelle funzioni, nei modi d’uso, nei comportamenti e anche negli spazi. Questo insieme ai privati: penso ad esempio al social housing, edilizia sovvenzionata promossa dallo Stato ma realizzata dai privati. È una delle grandi risorse che abbiamo in questo momento.

Non c’è il rischio di creare ghetti?

Per questo l’intervento del pubblico è fondamentale. È chiaro che se in un quartiere introduco un’università pubblica posso riequilibrare certe situazioni. Ma si parla della vita delle persone, di processi lunghi. Ma è importante andare in questa direzione.

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