Pensiero

Di scienza, cibo e ansie

Dai miti alimentari alle paure che associamo ad alcuni 'ingredienti cattivi', intervista al chimico e divulgatore Dario Bressanini

2 marzo 2018
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Gusti personali, significati simbolici e religiosi, questioni di salute, sensibilità ecologiche: sono tanti i valori che circondano il cibo, raccomandando un determinato ingrediente oppure, al contrario, sconsigliandone o addirittura proibendone l’utilizzo. Viviamo del resto in un mondo fatto di ‘intolleranze alimentari, allergie e mode’, come recita il titolo dell’incontro che si terrà lunedì alle 20.30 all’Auditorium dell’Università della Svizzera italiana a Lugano, parte del ciclo “E tu come stai?” sul futuro della medicina organizzato dalla neonata Facoltà di scienze biomediche e da L’ideatorio.
Ospiti della serata la filosofa Francesca Rigotti, la nutrizionista Evelyne Battaglia Richi, il medico Giacomo Simonetti e il chimico e divulgatore Dario Bressanini, al quale abbiamo posto alcune domande.

Dario Bressanini, possiamo definirla uno scienziato che applica le conoscenze e il metodo scientifico alla cucina?
Sì, anche se preferisco definirmi un chimico: ‘scienziato’ è troppo generico. Perché secondo me la chimica ti dà un qualcosa in più: la visione molecolare di quello che sta intorno che spesso ad altri tipi di scienziati manca un po’.

Però se pensiamo a una certa idea di cucina, imperniata sui ‘sapori di una volta’ e sui ‘cibi naturali,’ la scienza sembra bandita dal regno della gastronomia…
Sì, ma in realtà è una fase transitoria. Fino agli inizi del Novecento la chimica, e la scienza in generale, andavano a braccetto con la gastronomia, fornivano ai cuochi nuovi modi di cucinare. Ce ne siamo dimenticati, ma molti dei nomi che incontriamo al supermercato appartengono a dei chimici: Liebig con il suo estratto di carne, Maggi, il cacao Van Houten…
Poi, nel Novecento, è cambiato l’“approccio psicologico” dei cuochi che si sono sempre più sentiti vicini agli artisti piuttosto che agli scienziati, per cui si sono allontanati dalla chimica. Tuttavia negli ultimi anni è tornato il collegamento tra scienza e cucina; troviamo ad esempio diversi cuochi, come Heston Blumenthal o Ferran Adrià, che collaborano con scienziati. E nelle cucine di moltissimi ristoranti troviamo attrezzature “da chimico”: pian piano stiamo tornando all’approccio dell’Ottocento, dove la chimica è vista non tanto come industria chimica, ma come disciplina che spiega che cosa succede nella padella.

Spesso però la scienza non è tenera con quelli che potremmo chiamare pregiudizi culinari, ‘smontando’ prassi che facciamo per tradizione…
Più che per tradizione, per abitudine: terrei separate le due cose, perché un piatto può essere tradizionale – come ricetta, come accostamenti di sapori – ma la sua esecuzione può cambiare nel corso degli anni, perché troviamo modi migliori, e questo senza nulla togliere all’inventore del piatto.
Noi non ce ne accorgiamo perché sono cambiamenti che in genere avvengono molto lentamente, ma se potessimo andare indietro nel tempo e ordinassimo un piatto tradizionale, lo troveremmo molto diverso da oggi. I modi di cucinare cambiano, e oggi si sfrutta la scienza non necessariamente per cose sofisticate: basta un banale termometro per conoscere la temperatura interna della carne per ottenere risultati migliori. Pur rimanendo tradizionale.

Arrivando al tema della serata, la scienza ha anche da dire sugli effetti sulla salute di molti ingredienti…
Alla serata parteciperà anche un medico, per cui io, da chimico, degli effetti sulla salute non mi occuperò direttamente: mi soffermerò più sull’aspetto mediatico, sulla percezione pubblica di certi ingredienti. Che è anche una questione di moda, perché pur non avendo nessun problema alimentare ci sono molte persone che non mangiano questo o quest’altro ingrediente. Viviamo in un periodo in cui abbiamo il cibo più sicuro, più abbondante e vario – un secolo fa in inverno te le scordavi le cinque porzioni di frutta e verdura – di sempre, eppure siamo sempre più impauriti e ansiosi. E rispondiamo cercando di eliminare cose che crediamo possano fare male: convinti che il glutine faccia male, lo togliamo dalla dieta e ci sentiamo meglio, ma è solo un effetto psicologico. E questo vale per zucchero, farina, olio di palma…

Gli ingredienti ‘assolutamente da evitare…’
Ma è un’idea sbagliata, pensare che ci siano ingredienti buoni e ingredienti cattivi indipendentemente dalla quantità. Per la scienza l’olio di palma non è né buono né cattivo, bisogna vedere le quantità, la dieta globale. Ma è un discorso che si fa fatica ad accettare, perché comporta delle responsabilità: se il problema è la quantità, la colpa è tua che non ti sai regolare, ma se invece puoi incolpare un ingrediente specifico, sei scagionato, e la colpa è dell’industria cattiva che usa il glutammato, l’olio di palma eccetera.

Ma questa semplificazione dell’ingrediente cattivo non è dovuta anche a chi comunica i risultati scientifici?
Certamente. Un po’ è la difficoltà di concentrare concetti complessi in tre righe; un po’ è anche la difficoltà del giornalista medio, che non ha una formazione scientifica, nel riuscire a raccontare concetti che hanno a che fare con il rischio e la probabilità. Pensiamo agli alimenti cancerogeni: è difficile far passare il concetto di un aumentino del rischio, la gente pensa “è cancerogeno, se lo mangio mi viene sicuramente il cancro, e se non lo mangio sicuramente non mi viene”.

Nella tua esperienza di divulgatore, con libri, un blog e recentemente con un canale YouTube, quali sono i miti alimentari più tenaci?
Su YouTube, dove il pubblico è più giovane, trovo oggi le domande che sul blog mi facevano dieci anni fa e il grande tema è il naturale: “Se è naturale forse non fa bene, ma di sicuro non fa male”. Me lo dicono in tanti, al che faccio notare che ci sono molte sostanze naturali che fanno male, che sono tossiche o velenose. Al che rispondono “è vero”, senza rendersi conto della contraddizione, perché questa idea del naturale è talmente profonda che non riesci ad agire a livello razionale.

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