Pensiero

L'attualità dell'umanesimo e l'urgenza dell'utopia per Michele Ciliberto

29 novembre 2017
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«È un libro di lotta, di battaglia etico-politica» ci spiega Michele Ciliberto, professore di Storia della filosofia alla Normale di Pisa, a proposito del suo saggio ‘Il nuovo umanesimo’ (Laterza) che sarà presentato domani, giovedì 30 novembre, alle 18 alla Biblioteca cantonale di Lugano.
Il volume, che a una interessante introduzione sull’attualità delle idee umaniste unisce una breve antologia di testi, nasce da un ciclo di nove seminari voluti dall’editore Laterza. «Una proposta che ho accettato perché ritengo che umanesimo e rinascimento siano in grado di parlare anche alla nostra epoca».

Quindi, alla base del libro vi sono alcuni tratti comuni tra la nostra epoca e il Quattrocento italiano. Può spiegarci quali sono?
Ritengo che noi siamo in una fase di profonda trasformazione: viviamo una crisi dei fondamenti della nostra civiltà di cui, mi pare, non abbiamo piena consapevolezza. Assistiamo al mutamento dei modelli antropologici, e questo anche a causa dei mutamenti demografici, pensiamo all’immigrazione ma più in generale alla globalizzazione.
Cambiano gli assetti costituitivi dell’Europa; pensi ad esempio a come si è complicato il rapporto tra Cristianesimo ed Europa e questo ha inciso sui comportamenti personali, ad esempio nella sfera sessuale.
Questo è il primo punto di raccordo tra noi e il tempo dell’umanesimo: anche gli umanisti si sono confrontati con una crisi radicale che loro hanno espresso in chiave ideologica con una contrapposizione frontale con il Medioevo.
C’è poi, secondo me, un altro punto in comune: gli umanisti hanno avuto, sul mondo e su sé stessi, uno sguardo profondamente disincantato, persino crudele. Però sono stati anche costruttori di grandi utopie: l’utopia pazza del Principe di Machiavelli, l’utopia di Michelangelo nella Cappella Sistina, l’utopia di Alberti, di Giordano Bruno… allo sguardo disilluso gli umanisti uniscono la capacità di immaginare nuovi mondi, una tensione continua tra disincanto e furore, tra disincanto e utopia.

Non mi è chiara una cosa: questa dimensione utopica lei la vede presente nella nostra epoca o al contrario la auspica costatandone l’assenza?
La seconda che ha detto. Quello che domina oggi è un grande disincanto. Viviamo in un mondo grigio, triste, un mondo fatto di grandi diseguaglianze e anche di grandi infelicità personali. Assistiamo a una crisi dello spirito pubblico, a una chiusura su sé stessi, personale e politica.
Per questo dicevo che il mio è un libro di battaglia culturale: gli umanisti ci presentano delle figure che hanno saputo pensare anche in termini fantastici la trasformazione del mondo. Guardare all’umanesimo può aiutarci a sollevare lo sguardo, a pensare il mondo in termini nuovi.

Gli umanisti, come detto, potevano contrapporsi al Medioevo. Noi abbiamo il Novecento, difficile da interpretare come ‘secolo buio’…
Però è stato un secolo atroce: è il secolo dello stalinismo, del fascismo, della Shoah. Non ho alcun atteggiamento antimoderno – vorrei che questo fosse chiaro–: nel Novecento sono state fatte cose straordinarie. Ma anche cose terribili. Io penso, come diceva Machiavelli, che l’uomo non riesce a uscire completamente dalla caverna: la bestialità è immanente, la cultura è una conquista fragile, non possiamo dare per acquisiti valori come quelli della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fraternità.
Come diceva Croce, la cultura è come il fiore sulla roccia che qualunque refolo di vento può distruggere. Lo sprofondamento nella barbarie è sempre possibile: penso che, oggi come oggi, sarebbe possibile trovare persone disposte a fare quello che è stato fatto nei campi di sterminio.

Una fragilità che fa parte di quello sguardo disincantato da cui eravamo partiti.
Machiavelli diceva che l’uomo è feroce, ambizioso e invidioso e che se vuoi una teoria politica seria lo devi sempre presupporre così, perché se lo presupponi buono non vai da nessuna parte.

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