Nasceva oggi quella che Chris Blackwell, fondatore della Island Records, definì l'unica ‘superstar della musica globale nel Terzo Mondo’
Fenomeno culturale e politico almeno quanto musicale, Bob Marley compirebbe ottant’anni oggi, ma ne visse poco meno di un terzo. Morto l’11 maggio del 1981 a Miami mentre tornava in patria dalla Germania, Robert Nesta Marley detto Bob era nato nel villaggio giamaicano di Nine Mile il 6 febbraio 1945, unico figlio di un sorvegliante di piantagioni inglese che si faceva chiamare ‘Capitano’ e di una donna giamaicana di quarant’anni più grande, un Capitano che lasciò la famiglia poco dopo. Quindicenne, Bob lasciò la scuola per lavorare come saldatore, attività che gli tornò utile per costruirsi, in quel contesto di estrema povertà, qualcosa di simile a una chitarra con elementi di scarto. Fu l’amico Neville Livingston detto Bunny a condurlo verso la musica, e l'ascolto di Ray Charles ed Elvis Presley tramite un vecchio apparecchio radiofonico fece il resto.
Le suonate con Joe Higgs, cantante locale e devoto Rastafariano, l’incontro con Peter McIntosh, più tardi noto come Peter Tosh, i primi due singoli incisi nel 1961, ‘Judge Not’ e ‘One Cup of Coffee’, pubblicati sotto lo pseudonimo di Bobby Martell, che passarono pressoché inosservati. Poi, nel 1964, il primo singolo con Bunny e Peter Tosh sotto il nome di The Wailers, ‘Simmer Down’, un successo in Giamaica. Ci volle però la Island Records perché il messaggio di pace di Marley nei colori del reggae raggiungesse il mondo. ‘Catch a Fire’, il primo album dei Wailers, uscì nel 1973; l’anno dopo arrivò ‘Burnin‘’, con dentro ‘Get Up, Stand Up’ e ‘I Shot the Sheriff’, di cui Eric Clapton produsse una cover conferendo profilo internazionale al giamaicano. I Wailers si sciolsero in quell’anno, per motivi mai rivelati.
Nella sua terra natale, Marley si spese per la fine della violenza politica. Nel 1976 si esibì al concerto ‘Smile Jamaica’ a Kingston, nonostante fosse scampato a un attentato solo due giorni prima. Al One Love Peace Concert del 1978 portò sul palco il primo ministro Michael Manley e il leader dell’opposizione Edward Seaga e fece loro stringere la mano, ma la situazione di precaria sicurezza lo spinse a trasferirsi a Londra. “La mia vita è importante solo se posso aiutare molte persone”, rispose in un’intervista quando gli fu chiesto se sarebbe mai tornato. Quel concerto è il culmine del film ‘One Love’, uscito lo scorso anno.
Nel 1977, a Marley fu diagnosticato un cancro alla pelle sotto l’unghia dell’alluce destro, seguito a un infortunio durante una partita di calcio. Rifiutata l’amputazione del dito perché contro le sue convinzioni rastafari e forse anche per il non voler rinunciare al calcio, Marley dovette ricorrere alla chemioterapia perché il cancro si era diffuso in altre parti del corpo. Le cure gli portarono via gli iconici dreadlock, a segnare simbolicamente la fine dell’unica “superstar della musica globale nel Terzo Mondo”, come lo definì Chris Blackwell, fondatore della Island Records.
‘Jamming’, ‘No Woman, No Cry’ ‘Could You Be Loved’, ‘War’, ‘One Love/People Get Ready’ sono altri dei titoli rimasti in eredità alla musica del mondo, chiusa – prima dell’album postumo ‘Confrontation’ – da ‘Uprising’, disco il cui tour toccò lo stadio di San Siro a Milano. A chiudere ‘Uprising’ c’è ‘Redemption Song’, un unicum nella produzione di Marley perché esclusivamente acustica, voce e chitarra. “Aiutami a cantare un’altra canzone di libertà, perché tutto ciò che ho sempre avuto sono canzoni di redenzione”, canta Marley in quella canzone, scritta all’incirca nel 1979, a cancro diagnosticato e portatrice di un ultimo invito: “Liberatevi dalla schiavitù mentale, solo noi possiamo liberare la nostra mente”.