Gli artisti Giacomo Segantin e g. olmo stuppia raccontano le sfide della crisi climatica in due opere della collezione del Muse di Trento
L’Antropocene è la “nostra” epoca geologica, nostra perché è quella in cui viviamo e perché il principale fattore di cambiamento è rappresentato dalle attività umane.
È un concetto complesso, e infatti parte della comunità scientifica ne dibatte la definizione. Ma Antropocene è anche il nome di un progetto del Muse, il Museo delle scienze di Trento. Si tratta di una collezione di arte contemporanea, ed è iniziativa particolare per un museo scientifico, erede dello storico Museo tridentino di scienze naturali, coinvolto all’inizio degli anni Duemila in un profondo processo di rinnovamento.
Due opere di videoarte della “Collezione Antropocene” del Muse sono adesso esposte, fino al 7 settembre, nella sede della Fondazione Ibsa per la ricerca scientifica nella Casa Cattaneo a Lugano-Castagnola, in una collaborazione tra le due istituzioni accomunate dalla convinzione che il sapere scientifico debba dialogare con l’arte soprattutto su temi urgenti come il cambiamento climatico.
L’allestimento, curato dall’ideatore della collezione Stefano Cagol, invita il pubblico ad andare ‘Through the Clouds’, letteralmente oltre le nuvole, riprendendo il titolo di una delle due opere selezionate, ‘Looking through the clouds’ di Giacomo Segantin. Si tratta di un interessante collage di video dei più disparati, semplicemente accomunati dalla presenza, appunto, di nuvole: catastrofi naturali e fumogeni usati dalle forze dell’ordine per disperdere manifestazioni, ma anche il ghiaccio secco usato da influencer per realizzare video virali. Una giustapposizione surreale che, unita a un irreale silenzio, ci costringe a guardare sul serio le immagini. «Quest’opera nasce dall’idea di ragionare sull’utilizzo delle immagini nella comunicazione: siamo spesso sopraffatti dal ritmo e dalla violenza con cui certe immagini ci colpiscono e questo alla fine ci abitua, crea in noi una situazione di distacco invece che di empatia: non credo che l’immagine oggi sia in grado di creare consapevolezza se non c’è un approfondimento».
‘Sposare la notte’ di g. olmo stuppia è invece presentata dal suo autore come un’operazione di «archeologia contemporanea». A essere considerata un «reperto archeologico di un futuro prossimo» è la Sacca San Mattia, un’isola artificiale nella laguna di Venezia usata come discarica. Il progetto è nato durante la Biennale 2022. «Era una delle prime azioni e consisteva nel sondare delle zone iperinquinate e stratificate della laguna attraverso un viaggio dal tramonto alla notte senza telefono. Si sono trovate di colpo in quest’isola iperinquinata fatta di cocci di vetro, scorie radioattive scaricate negli anni Novanta, rovi, conigli: un paesaggio tarkovskiano nel quale hanno raccolto tutta una serie di frammenti che poi ho trasformato sia a livello video che a livello di scultura».
L’idea dietro queste due opere – e in generale dietro la Collezione Antropocene – è che l’arte e la scienza siano due linguaggi complementari che, in modi diversi, raccontano la stessa realtà. Proprio l’attenzione verso il mondo reale è al centro della visione di Cagol: «Il discorso interessante di fare questo tipo di arte è che in qualche modo ritorna a parlare nel mondo reale. L’arte contemporanea spesso si occupa solo del sistema dell’arte, di vendere i pezzi partecipando a un sistema capitalistico e contribuendo alle emissioni globali». La presenza al Muse assume quindi i contorni di un ritorno alla realtà in dialogo con la scienza.
All’inaugurazione della mostra era presente anche il presidente del Muse Stefano Bruno Galli. La sua nomina, un anno fa, aveva sollevato diverse perplessità, sia per il suo curriculum non scientifico – è professore di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche alla Statale di Milano – sia per la sua vicinanza politica al centrodestra.
Il Muse, ci ha spiegato, «è il primo museo di scienze naturali in Italia: l’anno scorso abbiamo fatto quasi 600mila visitatori e molto virtuoso dal punto di vista delle finanze: abbiamo 14 milioni di euro di bilancio, con il 55% di risorse nostre». Una istituzione, ha proseguito, dal forte profilo scientifico: «Su 250 dipendenti, tra personale a tempo indeterminato e collaborazioni, il museo ha una sessantina di ricercatori e sono ricercatori di altissimo profilo dal punto di vista scientifico, con pubblicazioni sulle più importanti riviste internazionali». Secondo Galli è proprio la qualità del lavoro scientifico uno dei “segreti” del successo del Muse: «La nostra divulgazione non è banalizzazione, non è semplificazione: alle spalle c’è un’attività di ricerca molto solida e robusta e questo certifica che tra ricerca e divulgazione c’è un rapporto diretto».
E l’arte? «Il tema del rapporto scienza e arte è una delle piste di ricerca che noi coltiviamo con particolare attenzione. Il museo a livello nazionale e internazionale può essere un laboratorio dell’Antropocene». Per questo il museo ha deciso di investire nella Collezione; «l’arte entra tra i modi in cui vengono rappresentate le acquisizioni scientifiche».
Occuparsi di Antropocene significa anche pensare a possibili interventi: il museo fa politica? «Il museo innanzitutto ha una funzione sociale che io interpreto come una sorta di avamposto nell’intercettare i problemi del nostro presente, che poi restituisce al visitatore seminando interrogativi, non vendendo certezze. La nostra attività politica è su un piano eminentemente culturale e scientifico».
Visto che ha parlato di risorse e di personale, gli abbiamo chiesto delle polemiche per le condizioni di lavoro delle guide. «Su questo argomento ho avuto un rapporto molto conflittuale con voi giornalisti, perché si è scritto che le guide del museo sono sul piede di guerra. Ma noi le guide le diamo in appalto, quindi le guide del museo se la sono presa con la cooperativa per la quale lavorano: non siamo noi che le trattiamo male. Abbiamo un potere contrattuale con la cooperativa, ma la cooperativa ha un rapporto diretto con le guide, quindi noi non possiamo intervenire. Abbiamo fatto tavoli, abbiamo spiegato, però il tema è il rapporto della cooperativa con i suoi dipendenti e noi lì non possiamo entrarci. Però giornalisticamente ha più presa fare il nome del museo». Avete considerato la possibilità di internalizzare questo servizio? «È un’operazione su cui possiamo lavorare, stiamo valutando, perché alla fine probabilmente ci costerebbe molto di più che non esternalizzare il servizio».