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Spartaco nel giardino creolo: Ishita Chakraborty al Museo Vela

Le sculture di Vincenzo Vela in dialogo con l'installazione ‘In Passage Tropical’, riflessione sulla resistenza tra botanica e migrazione

21 febbraio 2025
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Nell’emiciclo del Museo Vela, in mezzo ai bianchi modelli in gesso di Spartaco che si libera dalle catene della schiavitù e delle Vittime del lavoro, troviamo grandi e colorate sagome di piante: una palma, un fiore d’ibisco, una pianta di caffè, poi ancora mais, cacao, un banano. Muovendosi in questo spazio completamente ridisegnato da queste silhouette che sospese a dei fili fluttuano a qualche centimetro da terra, si scopre che se su un lato abbiamo gli insaturi colori tipici dei disegni naturalistici, sull’altro incontriamo trame variopinte. Appena nel girovagare ci si avvicina a uno degli altoparlanti, anch’essi sospesi, partono alcune voci che raccontano di viaggi, di esilio, di accoglienza, di barriere linguistiche e culturali.

È uno strano confronto tra esperienze artistiche, quello proposto dall’installazione ‘In Passage Tropical’ di Ishita Chakraborty, al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto fino al 27 aprile. Questa installazione si inserisce nel progetto “La libertà è una lotta costante”, titolo ripreso dall’omonimo libro (tradotto in italiano da Ponte alle Grazie) dell’attivista americana Angela Davis, una raccolta di saggi e discorsi risalenti al secondo mandato di Barack Obama e incentrati sulla necessità di non dare per scontato il superamento dei pregiudizi ma al contrario continuare a lottare contro le tante forme di discriminazione. La situazione sociopolitica oggi è decisamente diversa, ma il museo di Ligornetto riprende questo discorso tramite un dialogo tra le opere di Vincenzo Vela e l’arte contemporanea, allo scopo non solo di trovare connessioni, ma di ripensare in un contesto più ampio la propria collezione e il suo valore in un mondo volente o nolente sempre più intrecciato. La direttrice del museo Antonia Nessi ha citato, in proposito, una scultura – che non troviamo nell’emiciclo insieme alle opere di Chakraborty, ma in una delle sale – di Cristoforo Colombo che con un paternalistico gesto della mano “redime” l’America.

Così Nessi ha contattato Ishita Chakraborty per esplorare da altri punti di vista i temi della libertà e della resistenza che hanno caratterizzato la vita e l'opera di Vincenzo Vela che da volontario partecipò sia alla guerra del Sonderbund e sia alla Prima guerra d’indipendenza italiana e proprio in quegli anni realizzò il già citato Spartaco. Questa scultura ha un po’ spaventato Chakraborty, la prima volta che l’ha vista: «Mi sembrava troppo grande, troppo monumentale. Come potevo dialogare con un’opera così potente?» ha ricordato durante la presentazione dell’installazione. Tentata di rinunciare al progetto, alla fine Antonia Nessi l’ha convinta a cercare una strada per confrontarsi con Spartaco.

Chakraborty è nata a Calcutta, nella regione del Bengala occidentale, un territorio che porta i segni delle varie colonizzazioni europee. Questa stratificazione storica e culturale ha profondamente influenzato la sua formazione artistica, dall'apprendimento del francese imposto dal sistema scolastico post-coloniale, allo studio delle tecniche di illustrazione botanica sviluppate durante il periodo della Compagnia delle Indie Orientali. Da qui arrivano queste silhoutte realizzate in due tessuti distinti. Da un lato, quello con i colori dei disegni naturalistici, abbiamo la juta, il materiale usato per trasportare merci (anche) lungo le rotte commerciali coloniali. «La juta del Bengala ha fatto la fortuna della Compagnia delle Indie Orientali e ancora oggi resta un materiale simbolo dell'import-export globale» ha ricordato l’artista. Dall’altro lato i tessuti che ricordano i sari indiani, creando un contrasto (o forse un punto di incontro) tra la classificazione scientifica coloniale e l'espressione culturale locale.

Le piante raffigurate hanno tutte un “passato migratorio”, diventando non solo presenze globali e globalizzate, ma anche – e questo è particolarmente vero per caffè e cacao – merci oggetto di sfruttamento. Tuttavia, riunite in un singolo spazio, queste piante ricreano quello che storicamente venne chiamato “giardino creolo”: piccoli appezzamenti di terra che gli schiavi delle piantagioni caraibiche coltivavano con specie diverse per il proprio sostentamento. Questi orti rappresentavano non solo una fonte di sopravvivenza alimentare, ma anche un'affermazione di autonomia culturale, una sorta di “resistenza silenziosa” contro il sistema delle monocolture richiesto dal colonialismo europeo.

A questi elementi visivi dedicati al mondo vegetale, Chakraborty ha voluto sovrapporre una dimensione sonora che è invece dedicata ai racconti di persone che hanno vissuto delle migrazioni. Quelle testimonianze – sette persone in tutto arrivate chi dalla Siria, chi dal Burundi, dal Portogallo o dal Sud Italia – sono state realizzate durante degli incontri che l’artista esita a definire “delle interviste”. Gli incontri sono infatti avvenuti nelle loro case con l’idea della condivisione di esperienze comuni, visto che come detto anche Chakraborty ha vissuto l’esperienza di un viaggio dall’India alla Svizzera.

Con le sue grandi figure colorate, ‘In Passage Tropical’ non solo crea un piacevole contrasto con il bianco dei modelli in gesso di Vincenzo Vela, ma invita a riflettere sulle categorie con cui organizziamo il mondo: cosa significa essere “indigeno”, “alieno” o – come si dice di molte specie animali e vegetali e spesso anche di esseri umani – “invasivo”?