Dalla frana di Brienz alle competizioni con i cavalli giocattolo, in mostra a Castelgrande i lavori vincitori dello Swiss Press Photo 2024
Lo spazio della Sala Arsenale di Castelgrande ci accoglie con tre grandi pannelli orizzontali, costringendo ad avvicinarsi e quasi entrare nelle fotografie che Dominic Nahr ha realizzato, per la ‘Neue Zürcher Zeitung’, in Marocco, seguendo i soccorsi del terremoto nella regione dell’Alto Atlante l’8 settembre del 2023, e nella Libia in cerca di equilibrio oltre dieci anni dopo la caduta di Gheddafi. La mostra Swiss Press Photo 2024, che si è aperta ieri a Bellinzona e sarà visitabile fino al 27 aprile, prosegue con altre immagini, in un percorso eterogeneo e a tratti surreale, alternando la visita di Stato di Macron in Svizzera (fotografo Stefan Wermuth) alle competizioni di hobby horsing, in cui si gareggia “cavalcando” cavalli giocattolo (Jonathan Labusch per la ‘SonntagsZeitung’) passando per la frana di Brienz (Michael Buholzer), il crollo di Crédit Suisse (Mark Henley per ‘Le Temps’) e i minatori russi che si riposano nella neve (Mario Heller per la ‘Schweiz am Wochenende’).
Durante la presentazione ci ha ironizzato anche Michael von Graffenried, Ceo dei Premi del giornalismo svizzero dei quali fanno parte anche i Swiss Press Photo Awards: quando in giuria arriva un membro internazionale, bisogna spiegargli che in Svizzera le cose sono più tranquille e “tutto viene cucinato solo con l’acqua”, un modo di dire che ben sottolinea la mancanza di “ingredienti particolari” che i fotografi possono incontrare in contesti internazionali. Qui bisogna catturare storie significative in un contesto ordinario. E ci si riesce: le immagini suggestive, e capaci di raccontare una realtà magari poco conosciuta, non mancano, per quanto certamente diverse da quelle che si possono vedere nella mostra del World Press Photo esposta lo scorso settembre allo SpazioReale di Monte Carasso.
All’inizio del percorso espositivo troviamo le immagini di tutte le persone premiate, iniziando da Dominic Nahr, che ha ricevuto tre premi (due nella categoria Estero e uno in quella Ritratti) vincendo anche il premio quale Fotografo dell’anno. Nahr, come ha sottolineato Von Graffenried, è probabilmente il primo fotoreporter di guerra assunto stabilmente nella redazione di un giornale, un’eccezione nel panorama mediatico svizzero. Ed eccezioni, ma in un altro senso, sono anche le donne premiate: solo due. «È una questione di lunga data» ha spiegato Von Graffenried, escludendo che il problema stia nello “sguardo maschile” della giuria, nella quale la parità di genere è rispettata. «La mia interpretazione personale è che gli uomini tendono a essere più rapidamente soddisfatti del proprio lavoro e più pronti a dire “è abbastanza buono, posso candidarlo allo Swiss Press Photo”; le fotografe invece tendono a essere più critiche verso il proprio lavoro e hanno meno fiducia nel presentarlo» ha aggiunto Von Graffenried.
Lei ha vinto con tre progetti diversi: una serie di ritratti in Ucraina, il terremoto in Marocco e la Libia del dopo Gheddafi. C’è qualcosa in comune?
Penso che tutte queste situazioni rientrino nella sfera di “ambienti complessi”: luoghi difficili da raggiungere e in cui è difficile operare. È la parte più importante del nostro lavoro: avvicinarci il più possibile a una storia che, solitamente, è una situazione complicata. Scattare la foto è solo una piccola parte dell’incubo logistico che affrontiamo: come entrare in Siria dopo la caduta di Assad? Come entrare in Libia, che è chiusa ai giornalisti? Come documentare un terremoto? Tutto rientra nello stesso tipo di sfida. Non si tratta di seguire una regola prestabilita, ma di adattare il reportage alla storia. Che sia cronaca immediata o un servizio più approfondito, bisogna adeguarsi. In Ucraina, per esempio, ho scattato molte foto diverse dal ritratto: in prima linea, nelle retrovie, ovunque. Ma in quel momento particolare, sentivo che dovevamo vedere i volti delle persone. Un editor me l’aveva suggerito, e questo è il motivo per cui ho iniziato a fotografare le persone. Il mio producer locale in Ucraina mi chiedeva perché fotografassi i volti, se non fosse noioso. Ma io sapevo che, facendolo ripetutamente, avrebbe avuto un forte impatto.
Adattare il reportage alla storia: come avviene questo processo? Quando capisce se l’immagine è quella giusta per la storia?
Penso sia importante non avere un’immagine preconcetta nella testa, altrimenti si cerca solo quello che si ha già in mente rischiando di perdere tutto ciò che c’è intorno. Da questo punto di vista sono fortunato perché non rifletto troppo sulle cose: quando lavoro a questi servizi, di solito lascio che le cose vengano verso di me. Cerco anche di non vedere troppe foto di altri fotografi per non essere influenzato da ciò che hanno già fatto loro o da ciò che dovrei inseguire. Questo aiuta a identificare qual è la storia, di cosa ha bisogno, quanto devo essere vicino.
Soprattutto con il servizio in Marocco, sentivo di dover essere molto vicino alle persone, di dover essere in qualche modo uno di loro. Anche la foto dall’alto degli uomini in preghiera prima di seppellire un corpo appena estratto dalle macerie, sono andato con loro, li ho seguiti, li ho accompagnati, ci siamo tutti puliti le mani toccando la terra perché non c’era acqua. C’è un’immagine, in quella serie di foto, dove si vedono degli uomini che guardano verso l’alto e uno di loro indica qualcosa: era un drone che si avvicinava e li riprendeva. Erano tutti molto turbati dalla presenza di questo drone che li filmava senza sapere chi lo controllasse. Anch’io ero arrabbiato e mi chiedevo chi fosse il responsabile. È una cosa completamente diversa dal mio scatto dall’alto: anche se ho fotografato da una posizione sopraelevata, ero stato con loro per tutto il tempo, avevo partecipato al loro momento.
Nel decidere cosa raccontare, cambia qualcosa per chi si lavora? Un settimanale americano ha bisogno di qualcosa di diverso da un quotidiano di Zurigo?
La differenza c’è ed emerge già nella fase iniziale del progetto. Lavoro molto strettamente con il team della ‘Nzz’: non si tratta di semplici incarichi dove qualcuno mi dice di andare con un giornalista a scattare foto, ma ragioniamo insieme su dove andare, cosa vogliamo realizzare, come sviluppare il progetto. È un lavoro di squadra molto diverso, ad esempio, da quello con il ‘New York Times’ che è una grande macchina editoriale con idee già definite su ciò che vuole realizzare.