Arte

Il silenzio dei satelliti

Momenti di lettura / Raccolta di dodici racconti di Clemens Meyer, in cui narra di non luoghi abitati dagli sconfitti

Architettura DDR
25 maggio 2019
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Ex DDR. Christa è addetta alle pulizie sui treni durante le loro soste notturne. Birgitt lavora come parrucchiera. Due donne schiacciate dalla vita che decenni prima erano state “due gran belle socialiste” e che si incontrano per caso al bar della stazione, tra un turno di lavoro e l’altro. Finché la mignon di spumante che dividono e le quattro chiacchiere che scambiano divengono il loro unico orizzonte di speranza. Un giorno Birgitt non si presenta all’appuntamento e Christa decide di andarla a trovare a casa. Bussa. Non sapremo mai se quella porta si aprirà.

È questo uno dei dodici racconti che compongono l’ultima raccolta di Clemens Meyer, Il silenzio dei satelliti, ora disponibile anche in traduzione italiana presso Keller. Ed è un pezzo emblematico che, in una sorta di mise en abyme, presenta molte delle caratteristiche e dei motivi degli altri testi. A cominciare dall’incontro casuale tra due personaggi, da cui spesso prende l’abbrivio la narrazione; come quello, su una panchina davanti al Mar Baltico, tra un anonimo protagonista in fuga dai suoi fantasmi e un vecchio che un tempo lavorava per una tranvia che passava di lì e il cui percorso è ora sommerso dalle acque. O quello tra un giovane che torna al suo appartamento trovandolo violato dai ladri e che si intrufolerà, in cerca di un’intimità ormai perduta, nella casa di un’anziana sconosciuta, convinta che il visitatore sia suo nipote, da tempo partito.

Meyer disegna una geografia modellata su non luoghi che tratteggiano magistralmente la trasformazione dell’ex DDR: casermoni popolari, stazioni ferroviarie, bar e chioschi di periferia, sale di videopoker. Spazi nei quali è dolorosamente incisa la Storia, come nel complesso residenziale cui fa da guardiano il protagonista del secondo racconto: lì accanto ci sono una caserma ormai abbandonata dai Russi e un centro d’accoglienza per profughi su cui a volte si scagliano le pietre dei naziskin. Eppure è proprio attraverso la rete metallica che li separa che può essere scambiato un tenerissimo bacio con una giovane ragazza che poi scomparirà nel nulla. Un Paese dove al posto dell’Utopia socialista spuntano le moschee e dove è possibile, nel pezzo che dà il titolo alla raccolta, innamorarsi di una giovane musulmana che col velo si copre le piccole cicatrici dell’acne e che esce sul pianerottolo a fumare prima di andare a dormire. Ma anche lei sparirà, a simboleggiare, metaforicamente, la disillusione che ha seguito la Riunificazione, resa benissimo da Il ritorno degli Argonauti, in cui le speranze dell’infanzia si infrangono contro l’impietoso moto della Storia. Ciononostante, i personaggi, benché spesso sconfitti, non perdono mai la loro dignità. Quella che spinge un macchinista di treno merci a contattare, fingendosi un vecchio compagno di scuola, la vedova dell’uomo che ha investito e ucciso: gli si era presentato sui binari e lo aveva guardato negli occhi, sorridente alla morte. Né i personaggi rinunciano ai loro sogni, poco importa se si realizzeranno o meno: un fantino dell’ex DDR, almeno una volta nella vita, vorrebbe vedere la corsa di cavalli sul lago ghiacciato di Sankt Moritz. È tutto pianificato, finalmente. Non ci arriverà mai.

Meyer costruisce tutti i suoi racconti sull’idea di transizione, declinata attraverso l’uso sistematico dell’analessi, le frequenti ambientazioni autunnali e notturne, la scelta di far incontrare personaggi vecchi e giovani (già vecchi pure loro); una dinamica, del resto, ben sintetizzata dalle splendide fotografie scelte per le alette del libro.

Ad eccezione dell’ultimo racconto, quello politicamente più impegnato e costituito da un omaggio alla militanza dello scrittore Willi Bredel che sfuma nell’onirico, l’autore, come nel monumentale Eravamo dei grandissimi, sospende ogni giudizio esplicito sulla Storia. Anche perché le (piccole) storie già lo sono.

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