Arte

Sputnik!

In Microcosmi, un ritratto di Raffaella Ferloni: grafica e pittrice

Raffaella Ferloni
12 dicembre 2018
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Più di sessant’anni fa veniva lanciato il primo satellite destinato a inaugurare le missioni spaziali, fino allo sbarco lunare dell’Apollo 11 anticipato di molti anni dagli scritti di Jules Verne e dallo splendido film di Georges Méliès, ‘Le voyage dans la lune’. Lo Sputnik sarebbe diventato leggenda perché da sempre l’uomo guarda verso il cielo e anche quando non siano gli angeli di Chagall o le Amalassunte di Osvaldo Licini immerse nel segno della luna, “amica di ogni cuore un poco stanco…”, noi scrutiamo il cielo. Qualche mese fa, lo Sputnik entra nel mio piccolo schermo grazie a un’idea di Raffaella Ferloni che ogni tanto mi manda immagini, frammenti di mondo. Grafica, pittrice, l’ho conosciuta quando a Chiasso nasceva la rivista ‘Bazarmagazine’. Il suo progetto grafico dava visibilità a quella che voleva essere una ricerca aperta sui migranti, il territorio, i cambiamenti in atto. Contenuto e cornice sono linguaggi convergenti se ispirati da uno stesso impulso narrativo, così chi entrava in ‘Bazar’ era accolto da linee e volti, da immagini che evocavano storie di vita. Raffaella, ha pure creato le scenografie della trasmissione Rsi ‘Il Gioco del Mondo’. Alcune di queste sono state esposte all’ex Macello di Lugano. Aymone Poletti, che ha presentato la mostra insieme con Damiano Realini, dice dell’artista che nella realizzazione degli scenari «si nutre di esperienze quotidiane, di immagini di massa trasposte, di trame rielaborate dove il filo conduttore va a riprendere spesso la composizione delle ‘graphic novel’…». Risaliamo qualche passo della sua vita, davanti a un tè. «Oggi il cielo è grigio e mi ricorda Aadorf, dove abitavo nelle case popolari, noi famiglia d’immigrati. A scuola i bambini mi tiravano i sassi perché italiana. Un giorno, davanti a un campo di neve ho provato una sensazione particolare: dentro di me, una voce diceva che sarei diventata artista. La ricordo ancora con chiarezza».

Un contesto difficile?

Comunque il nostro milieu. Mio padre temeva che venissimo espulsi, il clima dovuto alla politica di Schwarzenbach. Stavamo un po’ discosti, salvo qualche vicino svizzerotedesco gentile e gli italiani.

Una condizione dura.

Certo, così per molti. Se vado invece ai trent’anni, ricordo un periodo di incertezza. Volevo fare canto, la cosa più pura che passa attraverso il corpo, le sue vibrazioni. Oppure danza, teatro: passavo da un sentimento all’altro. E in India, dove sono stata due mesi, un’esperienza altrettanto forte. Una strada lunghissima, deserta, vicino a un castello. Là, ho compreso che non avevo altri doni e che disegnare era l’unica cosa possibile. A otto anni un ictus mi paralizza la parte sinistra, eppure all’impedimento si è accompagnata una certa esaltazione.

Un riconoscimento per gradi...

Quel campo di neve, la voce che da bambina sentivo dentro di me credo fosse per certi versi quello che Jung chiama daimon, spirito creativo, guida che ti dà consapevolezza: cosa che oggi si fa avanti quando passo momenti di sconforto. Il fatto di dipingere su grandi formati, di dovermi dedicare al lavoro, agli impegni quotidiani, corrispondeva a quell’impulso interiore.

Ne tieni qualcuno?

Ero un po’ stanca di trascinarmeli dietro e a dicembre ho fatto una scelta necessaria.

Arte, artisti, pubblico. Come vivi questa relazione?

Il nutrimento dell’esperienza artistica viene anche da un feedback esterno, diversamente aumenta l’insicurezza. A me, capita.

Altre esperienze?

«I mesi passati a Berlino. Immergersi in una densità incredibile per quello che vedevo e rendermi conto che anch’io avevo una voce, là dentro. Qui è un po’ più difficile; dicendo questo ripenso ai sassi che ogni tanto mi lanciavano…». Qualche pausa e torno a quanto nel segno pittorico, grafico, di Raffaella Ferloni trovo distintivo, incoraggiante, fisicamente presente nella sua visione. Sguardo che tocca luoghi e persone: la realtà, di cui oggi a volte non sappiamo nulla, gli sfondi. I tratti della nostra storia e dell’oggi, senza snaturare l’origine del reale.

I tuoi studi?

Di grafica, terminati nell’81 e partendo da questi andare verso un altro mondo. Un periodo divertente, giocoso. Frequento poi l’Accademia di Brera quasi senza vedere un docente, dipingevo da sola. Ogni tanto passava un assistente, guardava e basta. Partivo alle sei di mattina con mio padre che mi accompagnava alla stazione, con lui un bel momento.

Le lezioni?

Mi piaceva storia dell’arte, tenuta da Renato Birolli. Intanto con mia madre apriamo a Molino Nuovo un negozio di vestiti e sartoria, ‘La vie en rose’, i miei quadri e cose di seconda mano che portavo da vendere. Purtroppo non ha funzionato.

Quello che oggi è – lo si vede nelle città – tendenza.

A Berlino abitavo al Kreuzberg e i negozi erano tutti così. Noi, eravamo in anticipo. Troppo.

Oltre all’Accademia?

Soprattutto la musica, i concerti al Plastic, il momento della New wave, molto fermento. Ho iniziato a cambiare soggetto, dipingevo di notte nel mio appartamento, a Lugano. Figure di donna prese dal giornale, estreme, con i tagli. Pastelli sulla carta da pacco e qualche tela. Androgini. Un mondo non definito. Non ne restano, salvo una venduta.

Diversi livelli di fascinazione.

«Nel negozio facevo vestiti dark. Cercavo di riproporli, le riviste cosmopolite m’interessavano molto. Leggevamo i ‘maledetti’, il sogno di andare via. Nel chiudere ‘La vie en rose’, abbiamo svuotato tutto e organizzato per un mese un’esposizione con degli amici artisti. Un punto di incontro che anni dopo si è riformato all’Atelier, sempre a Lugano, luogo in cui si sono conosciute diverse persone. Veniva anche Alberto Bianda, grafico che stimo molto e che ha installato la mostra all’Ex Macello. Musica elettronica, jazz, si ballava fino a tardi. Qualche mostra». Ultimamente, per ‘Il Quotidiano’, Raffaella Ferloni ha realizzato delle animazioni sul caso dell’Eritrea e dell’Azerbaigian e sta lavorando all’illustrazione di un nuovo racconto. «Forse le cose tornano pensando agli anni di Chiasso, alla rivista e credo che tutto questo si colleghi al fatto che sono nata da emigranti». Dalla musica elettronica, Raffaella è passata a quella indiana tradizionale, ai canti, insieme a Terry Riley, Brian Eno, Jon Hassell. Se lo Sputnik ha cessato il suo volo, partendo da quel campo di Aadorf, lei lo continua.

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