50 anni di Luna

Coi cinesi la Luna è di moda. E l'Europa vuole metterci gli igloo

A cinquant'anni dall'Apollo 11, con gli Usa ancora bloccati a terra, il sogno di tornarci sta pian piano riemergendo dalle nebbie dei tempi

La vista dall'esterno (ESA/Foster + Partners)
19 luglio 2019
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Forse non ci si pensa mai perché il senno di poi facilita i giudizi, ma toglie completamente il pathos. Quella notte tra il 20 e il 21 luglio 1969 nel Mare della tranquillità la distanza fra trionfo e tragedia si misurava in centimetri, secondi e inezie. Sarebbe bastato poco o nulla per trasformare quel luogo storico in una storica tomba. Sarebbe bastato, ad esempio, che il solo motore del Lem, mai testato in quelle condizioni, non si fosse acceso per condannare i due astronauti a rimanere lassù senza speranza di essere salvati. Il tutto sotto gli occhi atterriti del mondo. Non c’era un piano B. Una possibile tragedia la cui magnitudo era sfuggita a molti dei contemporanei di Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Finché Frank Borman, membro dell’equipaggio dell’Apollo 8, non scrisse a William Safire, colui che preparava i discorsi per il presidente Nixon, e gli consigliò di “iniziare a pensare a cosa dovrebbe fare il presidente in caso di un disastro”.

Questo singolo episodio spiega bene come mai molti commentatori, negli scorsi 50 anni, abbiano definito le missioni Apollo come frutto soprattutto dell’incoscienza.

«Fu un programma giustificabile solo dall’esistenza di un assegno in bianco e dalla guerra fredda – racconta Angelo Consoli, membro della Commissione federale per le questioni spaziali e docente alla Supsi –. Negli anni Ottanta ci si è poi resi conto che non aveva più senso che una nazione facesse tutto da sola, avviando così l’era delle collaborazioni tra agenzie, culminata nella Stazione spaziale». Era l’era dello Shuttle americano. Quello pensionato nel luglio 2011 senza che gli Stati Uniti avessero nel frattempo sviluppato un successore. Così, d’improvviso, dai fasti dell’Apollo, massima dimostrazione della volontà di esplorare degli Usa, gli americani si sono trovati senza un accesso allo spazio dovendo chiedere un passaggio ai russi. Cosa che perdura tuttora.

Ma la Luna, fa notare Consoli, sta tornando di moda. «Adesso con l’entrata nello scenario mondiale di Paesi nuovi come la Cina, che puntano anche al nostro satellite, c’è un nuovo stimolo. Non foss’altro che per marcare il territorio». Non è forse un caso che la Nasa abbia un piano per tornare sul nostro satellite entro il 2024. E questa volta l’idea (di tutti) è di restarci. «I cinesi lo faranno», commenta consoli. Gli altri Stati che visiteranno il nostro satellite, pure: «Ho visto personalmente dei prototipi di come si vogliano costruire gli igloo lunari. Una base sulla Luna potrebbe diventare un’alternativa interessante alla Stazione spaziale internazionale». Una parte importante nella costruzione di una base lunare potrebbe giocarla proprio l'Agenzia spaziale europea, che ha già chiarito nei dettagli come vorrebbe portare un igloo sulla superficie lunara. Lì utilizzerebbe tecniche di stampa 3D per trasformare materiali trovati in loco in materiale da costruzione.

L’idea di rimanere sul nostro satellite in pianta stabile non è comunque nuova: sull’onda delle missioni Apollo, già a metà anni Settanta si era ipotizzato una presenza umana permanente sul nostro satellite nel giro di qualche decennio. Una promessa disattesa. Per un motivo, spiega Consoli: «Allora non c’erano nemmeno i mezzi per riuscire a costruire qualcosa sulla superficie lunare: il Lem, ad esempio, non si sarebbe prestato a fare da trasporto di materiale. Poi, col passare del tempo, non si è più voluto rischiare vite umane mentre l’interesse per la Luna è andato scemando». È tornato. Spinto sì dalla Cina, ma anche dalle visioni di un privato: Elon Musk che punta a una missione privata su Marte. E per riuscirci deve quasi per forza usare il nostro satellite naturale come area di test. «Cina e privati hanno un vantaggio rispetto alle agenzie spaziali: decide una sola persona, che è la stessa che tiene i cordoni della borsa. Così è più facile rispetto a dover trovare accordi e compromessi». Eppure nel frattempo anche le agenzie nazionali hanno cominciato a pensarci. E per Consoli non c’è dubbio: «Sarebbe stupendo se ci si mettesse d’accordo per andarci come umanità, mettendosi tutti d’accordo». Così la prima bandiera piantata sul Pianeta rosso sfoggerebbe i colori dell’umanità intera e non quelli di una sola (allora) coraggiosa nazione.

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