Luganese

'Brandì un'ascia per spaventarla non per ucciderla'

Le Assise criminali infliggono 12 mesi sospesi a un 41enne ungherese che ferì in Val Colla un'ex amica nel pieno di un litigio.

21 ottobre 2019
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«Non voleva ucciderla, ma spaventarla». È dunque caduta l’accusa più grave, quella di tentato omicidio intenzionale e tentate lesioni gravi, a carico di un 41enne ungherese comparso oggi davanti alle Assise criminali di Lugano. Un anno di carcere e 15 aliquote la pena (sospesa per un periodo di prova di 4 anni) inflittagli che, dedotti i nove mesi trascorsi in cella, ne hanno fatto già in serata un uomo libero. L’uomo, da circa una decina di anni residente nel Luganese, dopo aver vissuto in Romania (dove è nato), per il quale non è stata decisa l’espulsione, è dunque stato condannato per lesioni semplici.
«Non sono io quella persona. Quei fatti? Non so spiegarmeli...». Sono state queste le parole pronunciate in sua difesa dal quarantenne nel corso del dibattimento. Quel tardo pomeriggio del 24 gennaio scorso, in Val Colla, nel pieno di una discussione in mezzo al bosco, dove la vittima si era recata per una passeggiata con i suoi cani, non brandì una scure né colpì in testa la sua giovane amica. In quel concitato litigio, frutto di un rapporto deterioratosi nel tempo, e sul quale l’uomo voleva chiedere spiegazioni, l’afferrò semplicemente al bavero. «Perché la vittima dovrebbe allora dire bugie?» gli ha dunque chiesto il presidente della Corte, Amos Pagnamenta, affiancato dai giudici Aurelio Facchi e Matea Pessina, «perché era arrabbiata con me» la sua risposta.


Fra verità e menzogne


Una versione contraddetta dal procuratore pubblico, Claudio Luraschi, che ha definito le dichiarazioni dell’imputato «raffazzonate». Nel chiedere una pena di 5 anni e 9 mesi, e l’espulsione per 10 anni, il magistrato ha contestato anche i vuoti di memoria denunciati dall’uomo, puntando invece sulle continue ritrattazioni e sulle versioni giudicate false. Il pp, che ha messo in luce il disturbo narcisistico riscontrato nella perizia psichiatrica, ha inoltre elencato i diversi elementi oggettivi rinvenuti dall’inchiesta quali la credibilità della vittima, la compatibilità delle ferite (attestate da Pronto soccorso e medico che la visitò) e la presenza del Dna della donna sull’accetta: «Lesioni – ha rimarcato nella sua requisitoria – che potevano essere letali».
Di avviso contrario la difesa sostenuta dall’avvocato d’ufficio Luca Taddei che ha chiesto a fine arringa il proscioglimento del suo assistito e un’eventuale indennità, qualora non fosse stato condannato, per ingiustificata carcerazione.
Condanna però c’è stata in quanto la Corte ha giudicato le dichiarazioni della vittima «costanti e coerenti». Le incongruenze? «Ci sono sempre – ha motivato la sentenza Pagnamenta – quando vi sono delle vittime, ma proprio per questo marginali e che per nulla cambiano la sostanza». Diversamente le versioni dell’imputato sono state definite delle «menzogne». Un’attenuazione ad ogni modo delle accuse dovuta al fatto che quell’ascia se brandita realmente per uccidere non poteva lasciare solo una lesione superficiale, come riscontrata sulla vittima: «Dopo aver simulato il colpo lo ha poi frenato – ha spiegato il presidente delle Assise – in quanto voleva spaventarla. Sappia però che non si regolano i ‘conti’ con un’ascia».
La loro amicizia, è stato raccontato durante il dibattimento, era nata per caso, circa dieci mesi prima di quel violento diverbio. Come dichiarato dall’imputato, la giovane donna lo aveva contattato per fargli sapere che aveva ritrovato il suo cane, scappato dal recinto. Da quella telefonata scaturì una visita nella sua abitazione e l’inizio di frequentazioni nelle rispettive case. Un rapporto che piano piano però si era andato a compromettere anche per sopraggiunti litigi, telefonate non corrisposte e messaggini anche ingiuriosi (caduti in prescrizione in quanto la donna non ha mai sporto querela).

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