L'APPROFONDIMENTO

Alla clinica Ars Medica niente ansiolitici, si usa l'ipnosi

Non si sedano più i pazienti da operare prima dell’anestesia, ma si usa la comunicazione terapeutica per calmarli. La nuova pillola si chiama empatia

Il dottor Lelais, specializzato in anestesiologia e tecniche di ipnosi, con una paziente alla clinica Ars Medica (foto Ti-Press)
6 novembre 2018
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L’ipnosi entra sempre più in ospedale come strumento complementare alle tecniche farmacologiche. Permette a chi soffre di claustrofobia di rimanere nella angusta macchina della risonanza; aiuta i grandi ustionati a ridurre ansia e farmaci, facendoli recuperare più in fretta; può diventare una tecnica in supplemento all’anestesia. Di recente in Francia un 88enne è stato operato al cuore senza anestesia pesante, sostituita dall’ ipnosi (vedi sotto). Il paziente diventa sempre più protagonista della propria guarigione, anche nell’affrontare l’intervento, attivando risorse interne che nemmeno sapeva di avere.

Anche alla clinica Ars Medica di Gravesano, le tecniche ipnotiche sono di casa. I pazienti diretti in sala operatoria venivano tutti premedicati con benzodiazepine prima dell’anestesia. «Era più per una comodità dei curanti. I pazienti in realtà avevano più ansia e dolore dopo l’intervento», spiega Claudio Camponovo direttore sanitario della clinica Ars Medica.

Una pratica che è cambiata, come ci spiega il dottor Frédéric Lelais, specializzato in anestesiologia e tecniche di ipnosi. «Non usiamo più la premedicazione con ansiolitici e benzodiazepine prima dell’anestesia perché vogliamo che il paziente partecipi attivamente al trattamento. Notiamo che questi processi migliorano la prognosi e la guarigione post-operatoria, oltre a diminuire ansia e dolore», spiega il responsabile del servizio di anestesiologia alla clinica.

A sostituire il sedativo c’è un nuovo farmaco, purtroppo poco usato, che si chiama empatia. «Usiamo una comunicazione terapeutica per creare un rapporto di fiducia col paziente che si rilassa e ha meno paura. Progressivamente, se necessario, si passa ad una conversazione ipnotica, per finire con un’ipnosi formale, se il paziente la richiede, con l’obiettivo di accompagnarlo verso il suo interno attivando le sue risorse, attivando il subconscio», spiega il dottor Lelais.

Diversi assi nella manica dell’anestesista, che può usare una comunicazione terapeutica per far sentire il paziente a suo agio. «È importante la scelta delle parole: i pazienti che entrano in sala operatoria prima di un intervento si trovano in una trance spontanea negativa, in questo stato la negazione non viene percepita. Evitiamo di chiedere: ‘Non hai male?’. Meglio dire: ‘Stai bene?’. Da evitare anche termini ansiogeni come ago, sanguinamento».

Importante è costruire, seppur in poco tempo, ma con un’adeguata comunicazione individuale adattata al paziente, un rapporto di confidenza. «Chiedo sempre al paziente di parlarmi di ciò che ama, distraendolo da ciò che teme. Attraverso una retorica ben specifica lo si aiuta a focalizzarsi su aspetti piacevoli. In questo modo il passaggio da una conversazione in apparenza banale ad una conversazione ipnotica avviene in modo sottile, quasi impercettibile», precisa.

Osservare e ascoltare il paziente, continua l’esperto, è importante: «Ciascuno ha il suo canale di comunicazione privilegiato. Per chi è più visivo userò: ‘Vedi che bello’. Per chi è più olfattivo: ‘Senti che bello’», precisa. E tutto il corpo deve esprimere ciò che pensiamo e diciamo, perché più delle parole passano sguardi, posture, tono di voce (vedi sotto). «In definitiva il paziente deve sentire che saremo al suo fianco per sostenerlo, ma anche sapere che ha risorse interne, che può utilizzare, inizialmente sempre col nostro aiuto, per trasformare una situazione di stress in qualcosa di positivo che lo farà stare meglio prima del previsto», conclude.  

Errori di comunicazione tra medico e paziente, le parole da evitare e dove sedersi

La comunicazione terapeutica, spiega il dottor Frédéric Lelais, è alla portata di tutti e si può usare in vari ambiti della vita. Ma ci sono vari ingredienti. Solo se sono in armonia, creano un rapporto empatico, di fiducia, quasi amicale col paziente. C’è la parte verbale (usare le parole giuste, evitare negazioni e parole ansiogene), quella non verbale (la mimica, la posizione del corpo, i gesti) e quella paraverbale (ritmo, timbro, volume, tono di voce). E c’è una regola di base da sapere. Quello che comunichiamo a parole conta solo per il 7% sulla comunicazione globale. Dunque molto poco. Chi ci ascolta percepisce molto di più ciò che raccontiamo col resto del corpo.

Abbiamo chiesto al medico quali sono i cinque errori più frequenti nella comunicazione col paziente che un operatore sanitario può fare.

«Sicuramente usare le parole sbagliate, parlando ad esempio di aspetti negativi, come dolore, sangue, ago. Ricerche hanno dimostrato che queste parole attivano l’area del cervello collegata all’ansia», spiega.

Un altro errore è l’incongruenza tra linguaggio del corpo e parole.

È bene prestare attenzione anche alla logistica nello studio. «Meglio far sedere un paziente di fianco, senza ostacoli tra paziente e medico, con lo sguardo rivolto verso di lui, attento a quello che dice. Sembrano piccolezze, ma sono dettagli importanti. Se il paziente è seduto dall’altra parte del tavolo, percepisce il medico come l’avversario di carte o di scacchi. Se è seduto di fianco, si creano subito complicità e più empatia», precisa il medico, che ha organizzato un corso per spiegare agli operatori sanitari tutte queste tecniche.

Altro aspetto importante: ascoltare il paziente e lasciarlo parlare. «Quando vedo un paziente gli chiedo di lui, da dove viene, cosa fa, come si è fatto male, si parla dei suoi hobby creando un rapporto di fiducia, di amicizia. Solo quando il paziente è più rilassato parliamo dell’anestesia, di ciò che gli fa paura». Infine, un consiglio: «Evitare di parlare al paziente con una mascherina, perché il volto parla, comunica, rassicura molto più delle parole».

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