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Dallo Yemen a Locarno per curarsi. E un abbraccio in ‘stand-by’

Al suo Paese quasi certamente sarebbe morto: in Svizzera è rinato grazie al trapianto. Ma per Shehab il sogno di rivedere i suoi cari, per ora resta tale

Per i primi anni, la geografia del Ticino Shehab l’ha conosciuta per gli ospedali (Ti-Press)

Al suo Paese quasi certamente sarebbe morto: in Svizzera è rinato grazie al trapianto. Ma per Shehab il sogno di rivedere i suoi cari, per ora resta tale

11 maggio 2023
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Otto anni lontano da casa sono lunghi. Specie se in quella che fino a 8 anni fa era stata la tua terra, il tuo mondo, hai lasciato tutto e tutti. A cominciare dagli affetti. E sono ancora più lunghi se quella di partire non è stata una scelta, bensì una necessità: quella di sottoporsi a cure che solo in un altro Paese potevano garantirti un futuro. La storia è quella del 27enne Shehab, yemenita arrivato in Svizzera per combattere una malattia che, quasi certamente, nel suo Paese l’avrebbe portato alla morte in poco tempo.

Una storia fatta anche di tanta sofferenza, prima per la malattia e il lungo percorso riabilitativo, e poi per la malinconia della sua terra natale, dei suoi genitori e della sua famiglia. Uno alla volta, Shehab ha però rimesso assieme i cocci della sua vita, che prima di quell’intervento sembrava andare a rotoli. Prima la salute, poi il lavoro. E infine, finalmente, la prospettiva di tornare in Yemen per riabbracciare papà e mamma e tutti i suoi cari. Quello era il regalo che Shehab aveva deciso di farsi per questa Pasqua. Il regalo più bello, anelato per otto lunghissimi anni.

Ma in questo capitolo della sua storia, almeno per ora, non c’è il lieto fine.

Ti-PressUn coccio alla volta, Shehab ha rimesso assieme i pezzi della sua vita

Un’Odissea senza lieto fine (almeno per ora)

Il nostro racconto parte da una lettera. Uno scritto che un’amica di Shehab ha voluto condividere con la nostra redazione. «Il mio amico Shehab, dopo otto anni trascorsi in Svizzera, e per buona parte in Ticino, con sofferenze e battaglie contro la sua malattia e tanta malinconia per la sua famiglia rimasta nello Yemen e malinconia per il suo Paese, dopo essersi costruito una vita indipendente e riavuta in parte la sua autonomia grazie alle cure avute in Svizzera e in Ticino, ha avuto tutto quello che desiderava: con gioia immensa sembrava essere giunto il momento, dopo otto anni di lontananza, di poter riabbracciare i suoi genitori e la sua famiglia», racconta questa sua amica, che l’ha conosciuto durante il periodo di riabilitazione dalla malattia, e poi rimasta in costante contatto con Shehab.

«Non gli mancavano i documenti, a partire dal più importante, il passaporto. Né i permessi di lavoro e di residenza. Idem per il biglietto per il volo, già comperato e in suo possesso. Sembrava tutto in regola. Fintanto che, al check-in dell’aeroporto di Bergamo, viene fermato. Il motivo? Impossibile passare dalla Giordania senza un visto recente. Shehab non era stato informato che solo da un paio di mesi la Giordania aveva introdotto una simile restrizione. Nessuno ne era al corrente, neppure l’agenzia di viaggi».

Inutile cercare una soluzione: «Affranto, ha dovuto riprendersi i bagagli e far rientro al suo domicilio di Locarno e riprendere la sua attività lavorativa quale impiegato amministrativo presso l’ospedale La Carità di Locarno. La felicità di poter riabbracciare i propri familiari dopo ben otto anni di assenza, e di trascorrere con loro un periodo breve di meritate vacanze in un attimo si è trasformata in una solenne delusione».

E termina: «Come poter concludere questo mio scritto? Sinceramente non saprei quale sia il modo migliore, se non quello di prenderne atto e nel dirci quanto noi siamo fortunati di vivere in un Paese da sempre libero».

Toccati nel profondo dell’animo dal racconto, abbiamo dunque voluto incontrare il protagonista della vicenda e raccontarne la storia.

Ti-PressAll’entrata dell’ospedale La Carità, dove attualmente lavora

Dallo Yemen alla Svizzera

Tutto comincia da una malformazione a livello urinario, di cui Shehab è affetto fin dalla sua nascita. ‘Banale’ finché si vuole, perché correggibile con un’operazione non particolarmente complessa, ma purtroppo per lui diagnosticata troppo tardi. Quando le continue infezioni avevano ormai già gravemente intaccato in modo irreversibile la sua salute. «Questo mi ha portato a sviluppare un’insufficienza renale cronica – racconta lo stesso Shehab –. Malfunzionamenti e infezioni che progressivamente sono andati a colpire un po’ tutto il corpo: praticamente non avevo più muscoli, e le ossa si erano atrofizzate, arrestando di fatto il normale processo di crescita».

Così nel 2007, grazie a uno speciale permesso di soggiorno, Shehab arriva una prima volta in Ticino per sottoporsi ad alcune cure, nell’ambito di una collaborazione tra l’Ente ospedaliero cantonale e lo Yemen. La spola tra Yemen e Svizzera prosegue anche negli anni successivi. Il quadro clinico di Shehab non è però l’unico a subire un progressivo deterioramento: anche al suo Paese natale la situazione peggiora, complice una guerra civile che, in particolare tra il 2015 e il 2016, miete migliaia di vittime. Siamo dunque al 2015, quando Shehab torna in Svizzera, la quarta volta, per un altro periodo di cure: un percorso riabilitativo alla clinica Hildebrand di Brissago intercalato con un ricovero in ospedale per la terapia antibiotica. «Visto il costante peggioramento delle mie condizioni di salute, quell’anno ero arrivato praticamente sulla sedia a rotelle, dato che non riuscivo quasi più a camminare. Scaduti i tre mesi della durata del visto avrei dovuto lasciare la Svizzera, ma proprio quel giorno mi trovavo ricoverato in terapia intensiva. A Locarno ho avuto la fortuna di incontrare Jaleel Al-Muaid, un medico yemenita pure lui e vice primario di chirurgia alla Carità nonché cugino di mio padre, che si è preso a cuore la mia salute e il mio caso. Continuare così non era più possibile: né per la mia salute, che peggiorava costantemente, né per la situazione nello Yemen. Occorreva una soluzione più duratura, che mi permettesse di seguire in modo più continuo il percorso di cure e riabilitazione». Una soluzione più duratura che si manifesta sotto forma di un permesso L, che viene rilasciato per motivi umanitari e che Shehab riceve nel 2016. «È stata la vera svolta per la mia salute. Per un anno e mezzo ho seguito la riabilitazione alla Hildebrand, dove fra l’altro ho imparato anche l’italiano (che ora parla correttamente e in modo fluido, ndr)».

Da una parte la riabilitazione fisica, e dall’altra la dialisi: la geografia del Ticino di Shehab in quegli anni si limita a cliniche e ospedali. Il poco tempo libero che gli resta lo dedica allo studio: «Ho seguito un primo corso di contabilità, poi un secondo di approfondimento così da poter conseguire un diploma cantonale. Quando non ero degente in ospedale, a ospitarmi era Al-Muaid, che si è anche assunto tutti i miei costi sanitari».

Nel 2021 arriva la seconda importante svolta per Shehab: «Una domenica mattina di febbraio, prestissimo, ricevo la telefonata che aspettavo ormai da tanto tempo: quella che mi informava che c’era un donatore per i miei reni. Così mi hanno portato a Zurigo per il trapianto».

Un futuro nuovamente nelle sue mani

«Il trapianto ha cambiato completamente la mia vita. Sono rinato, in tutto e per tutto. È vero che nei mesi seguenti l’operazione ho avuto ancora qualche problema, non da ultimo un principio di crisi di rigetto, ma poi da settembre la mia salute è decisamente migliorata. A quel punto, visto che nel frattempo avevo pure seguito una formazione, ho avviato l’iter per cambiare il mio statuto, e quell’anno le autorità mi hanno rilasciato il sospirato permesso B, che mi permetteva anche di lavorare. Il trapianto mi ha veramente aperto tante strade: ho finalmente ripreso in mano quella vita che praticamente fin da bambino mi stava condizionando in tutto e per tutto; ho cominciato a costruirmi un futuro…».

Il resto è storia ancora più recente: prima Shehab si trova un lavoro («dopo aver frequentato La Carità da paziente, ora in quello stesso ospedale ci vado tutti i giorni, ma… dall’altra parte, per lavorarci!»), poi l’indipendenza, con il suo primo appartamento, a Locarno.

Ti-PressCon il trapianto, la rinascita a una vita normale

E dalla Svizzera… a Bergamo (e ritorno)

Messi a posto uno dopo l’altro i tasselli della sua vita, prima la salute, poi il lavoro, Shehab sente che è arrivato il momento di ritrovare un po’ di quell’affetto familiare a cui aveva dovuto rinunciare otto anni prima. E così va all’agenzia viaggi per comperarsi il biglietto per volare in Yemen a riabbracciare papà, mamma, la sorella e i suoi tre fratelli: quasi tre lunghe settimane, dal 12 al 29 aprile, per stare assieme ai suoi cari otto anni dopo l’ultima volta e, soprattutto, stavolta senza più l’assillo di una salute precaria. «Sentivo che era il momento di rivedere i miei genitori: questi anni lontano da loro sono stati lunghi… Connessione permettendo, in questi anni ci siamo sentiti più o meno regolarmente, ma chiaramente non è la stessa cosa che vederci di persona».

Le cose, però, purtroppo non sono andate così: come detto in apertura, il viaggio di Shehab si interrompe già a Bergamo. «Un primo volo mi avrebbe dovuto portare alla capitale giordana Amman, e da lì verso lo Yemen. Purtroppo però solo al momento dell’imbarco sono stato informato che la Giordania aveva introdotto, da appena un paio di mesi, l’obbligo del visto per i cittadini yemeniti, pure per quelli unicamente in transito verso un altro Paese. Ho quasi rischiato di fare la fine di Tom Hanks nel film The Terminal (aggiunge, con un mezzo sorriso velato di tristezza). Ero delusissimo: ero partito con tanta voglia di rivedere la mia casa e la mia famiglia, e con la consapevolezza di essere in regola dal profilo dei permessi. Mi sarei potuto imbarcare comunque con il permesso B svizzero, ma purtroppo la sua scadenza è settembre 2023, mentre per partire sarebbero stati necessari ulteriori sei mesi di validità oltre la data del viaggio, dunque almeno fino a metà ottobre… Insomma, per un mese e qualche giorno, il mio sogno di rivedere papà e mamma è rimasto tale. Beninteso, non ce l’ho con le autorità e men che meno con chi all’aeroporto non mi ha permesso di imbarcarmi, ci mancherebbe: hanno semplicemente fatto il loro dovere. Capisco pure la Giordania che, complice la delicata situazione dello Yemen, per timore dell’arrivo di molte persone in fuga dalla guerra civile che ha dilaniato il Paese, ha deciso di introdurre un simile provvedimento, ma la delusione che ho provato e che provo ancora oggi è parecchia. Avevo quasi le lacrime agli occhi quando, ancora a Bergamo, ho ricevuto il messaggio di mio padre che mi pregava di informarlo quando sarei atterrato in Giordania, in modo da potersi regolare sul mio arrivo in Yemen. Alla fine non mi è rimasto altro da fare che rientrare in Ticino».

Ti-PressLa grande voglia di riabbracciare (finalmente) i suoi familiari per ora deve attendere