Locarnese

Un’ultima chance per la ‘piromane’ di Gordola

Condannata a 3 anni e 6 mesi di carcere sospesi per un trattamento ambulatoriale la 45enne del Locarnese che tra il 2016 e il 2019 appiccò otto incendi

14 giugno 2022
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L’alcol (spesso troppo) lo aveva in corpo, ma lo utilizzava anche per appiccare gli incendi per i quali rischiava di finire in carcere per un periodo ben più lungo dei due giorni già passati dietro le sbarre nel 2017. È la triste vicenda di una 45enne del Locarnese a processo alla Corte delle assise criminali di Locarno (in Lugano) e alla fine ritenuta dal Giudice Mauro Ermani (giudici a latere Monica Sartori-Lombardi e Aurelio Facchi) colpevole di incendio intenzionale ripetuto per otto roghi avvenuti a Gordola tra il 6 dicembre 2016 e il 23 gennaio 2019, causando danno alla cosa altrui per oltre 184mila franchi e mettendo parzialmente in pericolo la incolumità pubblica. Eviterà però il carcere in quanto l’esecuzione della pena di tre anni e sei mesi è sospesa per dare luogo a un trattamento ambulatoriale duplice (medico-psichiatrico e per la dipendenza dall’alcol), volto a favorirne il reinserimento sociale.

Una soluzione alla quale non si era di principio opposto il Procuratore pubblico Petra Canonica Alexakis, pur chiedendo, anche alla luce della «ripetitività e di una colpa se non già grave, importante», tre anni di detenzione di cui almeno sei mesi da espiare e la rimanenza sospesa per due anni. L’avvocato difensore Michela Pedroli aveva invece chiesto – anche alla luce di una scemata imputabilità a causa dello stato mentale alterato dall’alcol – una pena sospesa condizionalmente, in modo da permettere di proseguire il percorso di riabilitazione alla sua assistita, che dal canto suo si era detta dispiaciuta e disposta a iniziare una terapia farmacologica, nonché a farsi internare in una struttura specializzata (da settembre però, in modo da poter passare l’estate con la figlia e con il compagno in convalescenza).

Una sigaretta, dell’alcol e la fiammata: ‘Ma non so perché lo facevo’

Secondo quanto appurato, l’imputata tra il 2016 e il 2019 ha dato fuoco ad automobili – almeno cinque, tra cui anche quella del padre del suo attuale compagno ("ma non so perché l’ho fatto, non ne avevo motivo, in passato ci ha aiutato e lo sta ancora facendo", ha spiegato l’imputata) –, ma anche a un ripostiglio, a una scopa di saggina da cui il fuoco si è poi propagato al portone di uno stabile e pure a un locale caldaia nel quale ha gettato una sigaretta accesa mentre cercava un luogo per espletare i suoi bisogni. Episodio in particolare quest’ultimo che avrebbe potuto finire in maniera ben più tragica rispetto agli oltre 66mila franchi di danni provocati (in totale per tutti gli episodi sono oltre 186mila), trattandosi di uno stabile abitativo di tre appartamenti, due dei quali occupati ma fortunatamente evacuati per tempo dalle forze dell’ordine. Una ricaduta indicata dal giudice Ermani come una sorta di «fallimento», in quanto avvenuta a poco meno di due anni dall’episodio precedente e quando la donna, che rischiava tra l’altro di perdere l’affidamento della figlia, già stava seguendo un percorso di riabilitazione.

La sigaretta – oltre all’alcol – è uno dei denominatori comuni del "Modus operandi" dell’imputata, che la utilizzava per appiccare il fuoco unitamente a dell’alcol puro o ad altri liquidi/gel infiammabili. Proprio il ritrovamento su uno dei luoghi dei misfatti di un contenitore in alluminio di quelli solitamente utilizzati come fornello per fondue, unitamente a un mozzicone di sigaretta con il suo Dna, rappresentano una delle prove contro la donna. La quale ha in parte ammesso i reati contestatigli – ad esempio in un caso nel quale ha incendiato un veicolo ha dichiarato di averlo fatto «per vedere se come dicono una sigaretta e un bicchierino di alcol bastavano per provocare una fiammata» –, ma per la maggior parte degli episodi si è limitata ad affermare di non ricordare praticamente nulla.

Questo a causa della sua dipendenza dall’alcol, per la quale in seguito a due giorni passati in arresto provvisorio tra il 2 e il 3 aprile 2017, aveva iniziato un percorso di recupero con regolari (ma non sempre rispettati) incontri con una psicoterapeuta del servizio per le dipendenze Ingrado. Ma non assumendo farmaci specifici, sempre rifiutati in quanto spaventata dai possibili effetti collaterali. Nonostante questo la donna – attualmente senza impiego e sulla quale pesano diversi attestati di carenza beni – ritiene di aver compiuto, negli ultimi tre anni, importanti passi avanti, limitando in particolare l’assunzione di alcol a «una paio di bicchieri ai pasti – ha detto durante il dibattimento –. Finalmente sono riuscita a elaborare la morte di mia madre e il dolore per la perdita che mi portava a buttarmi nell’alcol per non pensarci e a compiere cose di cui nemmeno mi ricordo. Ho toccato il fondo ma ora fisicamente e mentalmente mi sento bene».

Un’ultima occasione nonostante il rischio di recidiva

Una tesi che non ha però convinto del tutto il giudice, che oltre ad affermare di non credere che le dimenticanze dell’imputata siano semplici amnesie, ha fatto notare in particolare l’incapacità della donna, madre di una bambina in età scolastica, di «astenersi completamente dal consumare alcolici» (come invece indicato quale condizione necessaria per il suo processo di guarigione da una perizia psichiatrica), situazione questa che porta a un «rischio di recidiva» nel commettere nuovamente il reato di incendio, «uno dei più gravi e per il quale la pena minima è un anno di prigione».

Il giudice ha altresì sottolineato come «la Corte non ha voluto infierire» sulla donna (condannata a rimborsare oltre 16mila franchi di spese procedurali) e che per questo ha appunto sospeso l’esecuzione della pena a beneficio di un trattamento ambulatoriale con presa a carico più intensiva e l’obbligo di attenersi alle seguenti norme di condotta: astensione totale dal consumo di alcol; obbligo di sottostare a regolari controlli dell’alcolemia, anche senza preavviso; notificare ogni spostamento dal domicilio superiore a una settimana; sottostare a un’assistenza riabilitativa per monitorare le suddette norme; ricercare un’occupazione quantomeno a tempo parziale. In caso di ulteriore sgarro, ha ricordato il giudice, l’alternativa non potrebbe che essere la prigione.

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