Nipotini onduregni e altri casi analoghi: l’avvocato Bernasconi ricorda l’importanza di appellarsi all’Alto commissariato dell’Onu per i diritti dell’uomo
Non è caduto nel vuoto l’interrogativo sollevato il 24 gennaio su queste colonne da Francesco Lombardo, presidente dell’Associazione Franca, sul mancato rispetto dei diritti del bambino nell’ambito della procedura amministrativa e giudiziaria che ha riguardato i tre nipotini onduregni di Giornico. Ragazzini di 10, 11 e 12 anni portati in Svizzera nel 2016 dal nonno Marzio Mossi, imprenditore ticinese costretto a mettere in salvo se stesso e la sua famiglia da concrete minacce di morte subite nell’ambito della sua professione. Gli sforzi da subito fatti per regolarizzare la situazione sono sfociati in risposte sempre negative da parte delle autorità. L’ultima è un’intimazione al rimpatrio dei tre ragazzini – nel frattempo perfettamente integrati – entro fine giugno nonostante in Honduras, uno dei Paesi più pericolosi al mondo, permanga il rischio per la vita del loro nonno e di conseguenza anche per loro. E nonostante loro tre non abbiano con l’Honduras alcun legame, se non la nazionalità e il fatto di esserci nati. A cogliere l’interrogativo di Lombardo, appoggiandovi sopra la lente giuridica, è l’avvocato Paolo Bernasconi, spesosi nella sua lunga carriera anche a favore dei migranti.
In passato lei ha patrocinato con successo alcuni minorenni stranieri nei confronti dei quali le autorità federali e cantonali avevano respinto le richieste di asilo e firmato ordini di espulsione o di rimpatrio. Ricorda qualche caso esemplare?
Nel 2018 la Segreteria di Stato per la migrazione (Sem) aveva deciso di rispedire in Grecia una famiglia di sette persone presente in Ticino: madre, padre e cinque figli, di cui tre ancora minorenni, di origine curdo-siriana che avevano chiesto lo statuto di rifugiati. La decisione della Sem venne confermata dal Tribunale amministrativo federale (Taf), ma poi annullata poiché avevamo richiesto l’intervento dell’Alto commissariato dell’Onu per i diritti dell’uomo con sede a Ginevra. Sempre in quell’anno, seguendo procedura analoga, il medesimo organismo annullò la decisione della Sem di rispedire nel loro Paese d’origine una mamma con due bambini trasferiti forzosamente con una camionetta della polizia, nottetempo, da Lugano a Kloten e caricati su un aereo dal quale, all’ultimo momento, coraggiosamente la madre fuggì con i due bambini. Anche allora la decisione di espulsione da parte della Sem venne poi annullata, per cui anche questa famiglia poté rimanere in Svizzera, riconoscendole la qualità di rifugiato.
Quali analogie vi sono fra i casi da lei appena citati, legati allo statuto di rifugiati in fuga dai loro Paesi, e quello dei tre nipotini Mossi di Giornico, di nazionalità onduregna ma con nonno svizzero, per i quali la richiesta fatta alle autorità cantonali non riguarda la procedura di asilo politico, tant’è che si parla semmai di richieste per ammissione provvisoria e permesso di dimora. Richieste a ogni modo sempre negate con decisione finale di rispedirli in Honduras, uno dei Paesi più pericolosi al mondo.
Indipendentemente dalla richiesta a monte, quando la decisione di espulsione riguarda minorenni, ogni autorità, sia amministrativa che giudiziaria, sia federale che cantonale, deve rispettare il principio ancorato anche nella Costituzione federale svizzera (articolo 11), secondo cui deve sempre prevalere l’interesse del minorenne così come obbligatoriamente stabilito anche dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989. Quindi si deve sempre tener conto anche del danno psicofisico dovuto allo sradicamento del minorenne dal proprio contesto personale, familiare, sociale e scolastico in Svizzera, rispetto al trasferimento in un Paese privo di strutture d’accoglienza, dove non conosce nessuno e di cui non parla la lingua. Proprio per scongiurare i danni conseguenti a un simile sradicamento improvviso, ancora recentemente il Taf ha annullato la decisione della Sem che voleva rinviare in Slovenia quella mamma con una bambina rifugiatasi da parecchio tempo in Val Verzasca dopo essere fuggita dall’Afghanistan.
Lei si è dunque appellato all’Alto commissariato competente anche per il rispetto della Convenzione Onu sulla protezione dei fanciulli. Perché, a suo avviso, dell’Alto commissariato non c’è traccia nelle varie decisioni prese sui nipotini Mossi che oggi hanno 10, 11 e 12 anni?
Il diritto svizzero riguardante lo statuto degli stranieri, e ancora peggio quello dei rifugiati, negli ultimi anni è diventato estremamente più severo e molto più complicato. Pertanto gli avvocati, e anche le organizzazioni che forniscono assistenza legale ai rifugiati, devono poter disporre di una rete che permetta di scambiarsi tutte le novità giurisprudenziali, specialmente in applicazione delle convenzioni internazionali che devono essere rispettate in tutte le decisioni delle autorità federali e cantonali, nella misura in cui siano invocate nell’interesse delle situazioni più disparate, ossia la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, la Convenzione di Istanbul per la protezione delle persone vittime di violenza domestica e la Convenzione Onu per la protezione delle vittime di tortura. Si tratta di quelle garanzie di diritto internazionale che l’iniziativa popolare promossa dall’Udc voleva rendere inapplicabili in territorio svizzero. Iniziativa che fortunatamente è stata bocciata in votazione popolare.
Quale differenza passa fra Alto commissariato e Corte europea dei diritti dell’uomo, la sola, quest’ultima, che il Tram cita nella sua ultima decisione contraria dello scorso giugno?
Mentre le tre suddette convenzioni proteggono categorie speciali di persone particolarmente vulnerabili, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani è applicabile a ogni persona. Proceduralmente, ottenere una decisione positiva dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo, appunto citata dal Tram, è diventato ormai difficilissimo e richiede parecchi mesi, ciò che invece non avviene rivolgendosi all’Alto commissariato Onu di Ginevra. La rete di giuristi e delle organizzazioni di assistenza legale ai rifugiati ancora recentemente ha organizzato un convegno per potersi familiarizzare con queste procedure molto complesse.
Riguardo al nipotino Mossi più piccolo, che segue un percorso medico ed educativo speciale, ritiene che rispedirlo in Honduras violi il diritto del minorenne di godere del migliore stato possibile di salute? Il Tram sostiene che non è stato documentato il rischio di un peggioramento in patria, né che l’Honduras non disporrebbe di strutture mediche e sociali all’altezza.
Anche la procedura amministrativa applicabile dalle autorità e dai tribunali nell’ambito della legislazione sugli stranieri e del diritto di asilo è assai esigente sul piano delle prove, per cui ogni ricorso dev’essere sorretto da numerose dichiarazioni debitamente allestite da parte di familiari, conoscenti, medici, insegnanti e altre persone del contesto sociale e scolastico della persona in causa.
I nonni Marzio e Claudia Mossi con un figlio e i tre nipotini
Nell’ultima sentenza il Tram stabilisce che il rientro in Honduras dei tre nipotini “è esigibile e rispetta i requisiti previsti dall’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo”. E aggiunge che secondo la Corte Edu e il Taf una situazione d’insicurezza generale, violenza ed elevata criminalità “non è sufficiente per ritenere violato l’articolo 3 della Cedu” secondo cui nessuno può essere sottoposto a tortura, pene o trattamenti degradanti. Eppure la comunità internazionale e le organizzazioni umanitarie descrivono l’Honduras come uno dei Paesi più pericolosi al mondo. Cosa sembra sfuggire ai tribunali e al Tram?
In generale la Sem e anche le autorità giudiziarie non procedono a un’analisi in concreto dell’idoneità o meno delle strutture d’accoglienza in un determinato Paese, limitandosi a constatare se abbia aderito a convenzioni internazionali, ma troppo spesso soltanto sulla carta. Per questa ragione è necessario disporre di una rete di associazioni credibili con sede nelle nazioni interessate e far capo alle organizzazioni internazionali che svolgono attività di vigilanza sul territorio, come Human Rights Watch, Amnesty International e numerose altre attive in tutti i continenti. Purtroppo, le condizioni previste dalla prassi svizzera attuale sono eccessivamente rigorose, per cui talvolta non è stato possibile opporsi alla deportazione forzata di persone che, nel loro Paese, sono poi state brutalizzate dalla polizia, per esempio in Cecenia e nello Sri Lanka, come sappiamo essere avvenuto in danno di persone deportate dalla Sem in quei Paesi.
Com’è possibile ovviare all’esecuzione di allontanamenti che vengono ordinati in violazione del diritto internazionale e in particolare delle tre suddette convenzioni?
L’alta vigilanza incombe sul Parlamento federale e sui Parlamenti cantonali, che però, purtroppo, non ne fanno uso, oppure intervengono soltanto perché stimolati dalla sana reazione dell’opinione pubblica di fronte a inchieste televisive o radiofoniche, come avvenuto ancora recentemente grazie a trasmissioni nella rubrica Falò e in altre rubriche. E così, detto per inciso, si spiega anche il motivo per cui Udc e Lega combattono da anni contro la Rsi. Basterebbe che a livello parlamentare si chiedessero quanti sono stati i minorenni e i rifugiati, già ben integrati, che sono stati espulsi dalla Svizzera a seguito di decisioni della Sem; oppure, a livello cantonale, a seguito di decisioni della Sezione della popolazione. Di fronte ai risultati, sicuramente spaventosi, di una simile indagine parlamentare, i parlamenti dovrebbero imporre alla Sem e agli analoghi servizi cantonali di emanare circolari interne che obblighino tutti i loro funzionari a rispettare la Cedu e le tre convenzioni. Oggi, per contro, la Sem e le autorità cantonali speculano sul fatto che sono pochi i rifugiati che possono e sanno ricorrere adeguatamente contro decisioni adottate manifestamente in violazione dei diritti umani.
Quali sono dunque le prospettive?
Quando il Gran Consiglio ticinese, il 24 gennaio 2023, votò la risoluzione contro la deportazione di una mamma etiope con due figli, ordinata malgrado fossero perfettamente integrati da molti anni in Ticino, la deputata Cristina Maderni, appoggiando questa risoluzione, dichiarò quanto segue: “Questo è il vero problema, come lavora la Sem? Su questo occorrerà senz’altro ritornare a riflettere”. Purtroppo, questa riflessione, da accompagnare con le relative misure correttive, non è ancora avvenuta, né a livello federale né a livello cantonale. Intanto Sem e autorità ticinesi proprio ancora oggi si battono per espellere minorenni in Paesi in cui saranno abbandonati. Perciò ritengo urgenti interrogazioni e iniziative parlamentari a Berna e a Bellinzona.