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Auschwitz, l'ultimo viaggio

19 giugno 2017
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Siamo andati ad Auschwitz-Birkenau. Dove dal 1940 al ’45 i nazisti hanno sterminato 900mila ebrei e altri 100mila prigionieri polacchi, rom, russi, italiani... 

Obbligateli a venire qui. Basta una volta. Concedendo loro di tornare, mentre non è stato concesso ad almeno 900mila ebrei, dal giugno 1940 al gennaio 1945, e ad altri 100mila prigionieri polacchi, rom, russi, italiani e di altre nazionalità. Chissà che magari dopo, a casa, questi “bravi” ragazzi che hanno minacciato – evocando le SS – il cantante ‘Bello Figo’, potranno forse capire cos’è un uomo. Che qui ha smesso di esistere. Sin dall’ingresso sotto la scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi... Sin dal primo giorno d’arrivo ad Auschwitz e a Birkenau, uno vicino all’altro, divisi da soli tre chilometri. Sulla stessa strada che li collega in un disegno di lucida follia. Di sterminio. Si può raccontare, per quanto oltre settant’anni dopo, tutto quest’odio che tale peraltro non era – era folle ideologia – perché odiare presuppone comunque ritenere l’altro oggetto di passione? No, quanto consumato qui non era odio, ma ostentata, infamante, scellerata, razionale e scriteriata supposta “superiorità”. Su tutti e in particolare su chi veniva considerato un difetto di percorso.

Portateli qui i giovani di oggi che esaltano inconsapevoli quei simboli e raccontate loro la storia di Etty Hillesum, scrittrice e studiosa, ebrea olandese, una brunetta snella. Una storia di sensualità e spiritualità, la sua, consumata in fretta. Sale sul treno per Auschwitz il 7 settembre del 1943, neanche trentenne, portandosi dietro tutti i suoi libri. Che testi leggesse, avrebbe voluto leggere al campo, non lo sapremo mai. I capelli invece... chissà, magari sono finiti lì nel mucchio esposto. Due tonnellate di capelli femminili tagliati alle prigioniere, oggi in mostra al ‘Museo della Memoria’. Sono in una teca, al primo piano, nella sala 5 del Blocco 4. L’unica stanza dove è vietato scattare foto. Non si fatica a capirne il motivo. I visitatori, già mesti benché quasi all’inizio del percorso, tirano dritto dopo una fugace sbirciata. Perché il troppo è troppo. Per tutti. Ma cosa sono due tonnellate di capelli? Sono ciuffi. Singoli ciuffi biondi o neri, castani o rossi. O magari “sale e pepe”, o anche quasi bianchi. Riccioli e lisci. Cresciuti e curati. Pettinati. Toccati dai genitori, dai figli, dagli sposi e dagli amanti. Coperti con cappelli, esposti alla pioggia, lavati e rilavati. Profumati con gli shampoo. Sono singole vite, i capelli, singole persone con un nome e cognome. Che avevano, le vittime, sino all’ingresso appunto nel più grande campo di sterminio creato dai nazisti e ancora ben conservato. Per non dimenticare. Per lasciare una prova tangibile, drammaticamente concreta, di cosa sono stati capaci.

E le parole vengono meno, anche a chi le usa per mestiere da oltre trent’anni, non dico per capire ma persino per tentare di raccontare cosa è passato, in soli cinque anni, in questi luoghi. Stravolge la disumanizzazione selettiva attuata dai carcerieri e assassini. Annotavano tutto. Selezionavano persone e oggetti con meticolosa razionalità. C’è una teca che contiene un numero indefinito di piccoli biglietti ferroviari acquistati dai deportati greci. Per dire. Prima illusi, quasi fosse un viaggio di piacere, poi spogliati di tutto – come capitava a tutti coloro che avevano la sventura di arrivare qui – e derubati, con tanto di accurata selezione e conservazione persino, appunto, dei ticket. Questo è il vero orrore, che supera persino la finitezza della vita. Che non ha spiegazione. Non ha attenuanti. Perché non si può annullare un milione di esistenze, un milione di fiori diversi, così come si rasa un prato. Entriamo al Blocco 5, quello delle prove. Gli oggetti portati con sé per l’ultimo viaggio, magari raccolti in fretta perché strattonati dalle SS che non lasciavano il tempo di scegliere. Strettamente necessari, come i rasoi da barba, i pettini, le spazzole per i vestiti o qualche scodella per bere e mangiare. Un vagone di oggetti da toilette e una stanza intera di vasellame. Tutti ammassati, uno sopra l’altro, come morti fra i morti. Li fotografo perché sono talmente tanti da stordire. Si carpisce la totalità della tragedia, ma al contempo si rischia di smarrire la dignità di ogni singola vita. Ogni singola persona, coi propri vizi e le proprie virtù.

E allora serve concentrazione sui particolari, partendo dal presupposto che ogni oggetto aveva un senso nella vita di un nonno, di un padre, di una madre, di una figlia, di una zia, di un cugino... Tutti trucidati. Gasati col Zyklon B, cristalli saturati di acido cianidrico e pesticidi. E poi ridotti in cenere. Fisso un paio di scarpe, fra le migliaia e migliaia consumate e accatastate. Consumate dal tempo. Sono da donna. Chissà dove sono state acquistate e magari osservate a lungo prima, in una vetrina europea. Forse era un regalo alla moglie, desiderato da tempo. O magari no, solo un’occasione per il ballo del sabato sera. Un paio di scarpe nuove e puoi girare tutto il mondo, cantavano a Roma in quei tempi. Sono arrivate sino ad Auschwitz e qui rimaste. Per oltre settant’anni. Vuote, inutilizzate. O meglio, altrimenti utilizzate. Poi si arriva al Blocco 10, quello delle “sperimentazioni” del ginecologo Carl Clauberg. Sterilizzazioni e test sui medicinali, in particolare, per conto di ditte farmaceutiche tedesche.

Cos’altro si può aggiungere che già non si sia detto o anche solo lasciato immaginare con queste poche righe? Quello successivo, il Blocco 11, ha un cortile interno dove c’è il cosiddetto Muro della Morte perché qui si eseguivano le fucilazioni. Ci sono dei lumi accesi sotto una parete dove hanno appoggiato la schiena, per l’ultima volta, almeno 5’000 prigionieri definiti politici. In verità nessuno conosce il numero esatto, perché la contabilità degli assassinati era un dettaglio insignificante per le SS altrimenti così precise e attente ai particolari della quotidianità.

E poi, quando ormai si è alla fine del giro, si finisce addosso alla forca posta sopra a un piedistallo. È qui che perde la vita, nel 1947, il comandante del campo Rudolf Höss. Impiccato su ordine del Tribunale supremo nazionale polacco. Resta il tempo per osservare le piante che ogni anno rimettono le foglie. Come l’erba che pur cresce, testarda, nei prati attorno. E cresce ogni anno pure a Birkenau, il campo della soluzione finale, il più grande centro di sterminio degli ebrei. E già scriverlo lascia senza fiato. Non serve altro, neanche vederlo, questo immenso campo col cancello d’ingresso inserito nell’edificio principale e il binario che lì arriva.

Inutile girarci attorno. Tutta l’aria è pregna di rumori, di voci, di cigolii prodotti dalle ruote ferrate, di ordini secchi, di pianti, di urla, di passi che si mettono in marcia verso le baracche dove si accatastavano – non c’è altro verbo – sino a mille persone, dieci per letto. Dove veniva concesso di espletare i propri bisogni due volte al giorno, non una di più. Cos’altro c’è da aggiungere? Come possiamo raccontarlo tutto questo inferno? Non si può. Ma ricordarlo sì, la memoria è l’unico tributo che abbia senso.