Archivio

Sul ciglio dell’abisso, Leonard Cohen

12 novembre 2016
|

Una donna di sicuro fascino un giorno mi disse che Leonard Cohen “ti seduce con la voce”. L’espressione, a dire la verità, era ben più pregnante, ma non si presta a essere riprodotta su un giornale. E dev’essere vero. La corrente sotterranea che ha percorso l’intera esistenza canora del songwriter canadese è stata infatti tutta un sedurre e lasciarsi sedurre: dall’amatissima Marianne (morta da poco, e lui le aveva detto: ti raggiungo presto) a miracolosi relitti umani come Suzanne, una taumaturgica Beatrice del nostro tempo guasto. Un amore carnale, non ingannato dalla cortesia, fatto di umori che emanano e si riversano sui corpi allacciati nell’abbandono che dà accesso allo stato di grazia e strappa un ‘Hallelujah’. Una lode rivolta non a una divinità, o forse sì, ché se c’è è tale proprio perché ha creato quell’amore lì. E basterebbe riascoltare i “sivoli“ rilasciati dalle ugole femminili quando attaccava “I heard there was a secret chord...” per convincersi. D’altra parte, come confidò lui stesso a un suo biografo, Cohen scriveva canzoni per conquistare le ragazze e, se non funzionava con loro, per ingraziarsi Dio. Riuscendo, immagino, nell’una e nell’altra cosa.
La chiave d’ingresso a tutte quelle porte è stata naturalmente la sua voce, della quale portava sorridendo il peso, la “colpa di avere una voce d’oro”, come riconosceva con candore in una vecchia canzone. Voce sgraziata e stonante da giovane, e via via scesa con gli anni ai registri più gravi, ai recessi lontani in cui è consentito di intravedere l’ombra di cui siamo anche fatti. Solo intravedere, certo, ma di più non potremmo chiedere.
Arrivato alla canzone dalla poesia e dalla narrativa (eh: un po’ la gioventù, un po’ le limousine posteggiate di sotto, come spiega a una scarmigliata Janis Joplin su un letto disfatto dall’amplesso, in ‘Chelsea Hotel’) Cohen è stato certamente il più “premio Nobel della letteratura” tra i suoi colleghi e coetanei. Le linee melodiche e armoniche delle sue canzoni sono sempre state al servizio della parola, praticamente mai il contrario. Strutture semplici, disadorne, o talvolta arrangiate elettronicamente da produttori senza scrupoli con risultati che dire imbarazzanti è già fargli un favore, per finire con i brani ultimi, divenuti piuttosto un salmodiare sopra un basso continuo e il contrappunto di ondeggianti voci femminili.
Ha cantato l’illusione della libertà (‘Like a bird on a wire…’), la transitorietà delle profezie, tornando, lui impregnato di ebraicità, sul monte dove Abramo aveva trascinato il figlioletto Isacco per sacrificarlo al volere di un Dio dissennato (e guarda un po’, anche Dylan era tornato sul luogo del misfatto, ma collocandolo da qualche parte lungo la Highway sixty-one), per dire della impossibile sapienza a cui tendiamo. Si è sottratto alla Storia e rinnegato il Futuro, anche quando ne rivendicava un diritto, quasi non se ne sentisse adeguato; e quando vi mise piede, con la bellissima ‘The Partisan’, prese a prestito parole altri (e la lingua, il francese) con un rispetto devoto e riconoscente.
Quando infine è venuto il momento di “ridere e piangere e ridere e piangere di tutto questo” stare al mondo, si è preparato per bene, sapendo che il Signore verrà nella notte ma senza avvertire dell’ora in cui avverrà.
La sua voce incorporea, come il soffio lieve di un dio dell’Antico Testamento (ma la sua, umana assolutamente umana) ha lasciato un canto in eredità. La leggerezza postesistenziale di chi ciondola al ritmo di un valzer lento sul ciglio dell’abisso, aspettando che infine lo accolga.